Fernando Pessoa, “Una stirpe incognita”, Edb edizioni, Milano 2016, pp. 56, euro 10

«Non so cosa mi porterà il domani», questa è la frase che Fernando Pessoa annota sul letto di morte.

Questa è la frase che chiude un'intera vita, se per questo autore di interezza si può parlare. Il suo valore in riferimento a chi l'ha scritta è retroattivo: Pessoa ha sempre vissuto all'insegna della possibilità, perché è riuscito a vivere al di fuori del controllo di se stesso moltiplicandosi in altre persone, in altri pensieri, in altre scritture. Con i suoi eteronimi, come direbbe Baudelaire, è «vissuto e dolorato in altri che in me».
Conferma questa sterminata galassia l'ultimo volume edito dalla casa editrice milanese EDBEdizioni (2016), per la collana “Poesia di ricerca” diretta da Alberto Pellegatta, “Una stirpe incognita”, a cura di Antonio Cardiello, con i disegni di Massimo Dagnino. Una scelta di tredici testi, di cui dieci assolutamente inediti e due tradotti per la prima volta in italiano. Seguendo la poliedricità del poeta portoghese la scelta spazia tra alcune liriche, che abbracciano più di vent'anni di vita, pezzi filosofici, di argomento religioso e sarcastiche considerazioni sul beneficio del «miglioramento e l'organizzazione del sistema ferroviario» in Italia, e sulla modernità tutta.
Così come quell'ultima frase ha valore per tutta la vita di Pessoa e di apertura verso il futuro, in una di queste prose la voce di «JC» (con la solita tagliente ironia dell'autore) tocca il motivo della posterità: «molti parleranno di me come se io fossi un determinato uomo in un determinato luogo e soggetto a un determinato modo di essere. Altri parleranno di me come se io non fossi mai esistito». Ma la posterità si rivela fittizia, soggetta all'arbitrio di chi verrà dopo, poco importante poiché anche lei non può fuggire il destino unico delle cose e del mondo: «Alcuni mi chiameranno Dio, altri Uomo, altri ancora Nessuno. Ma io vi vengo a dire, nel caso vi interessi saperlo (potreste volerlo), che Dio e Uomo e Nessuno sono la stessa cosa, e che questa cosa sono io stesso». Una volontà, che sembrerebbe far vela verso il desiderio di sparire; Pessoa rimane tra noi come uno dei vertici della letteratura mondiale ma il suo progetto di sparizione appare pienamente riuscito. I suoi eteronimi lo hanno assimilato, ma come un'epoca assimila l'altra, come Alvaro de Campos asserisce: «Nessuna epoca trasmette alla successiva la propria sensibilità; le trasmette soltanto l'intelligenza che aveva di questa sensibilità. Riguardo all'emozione siamo noi; per quanto riguarda l'intelligenza ci disperde; così, mediante ciò che ci disperde che sopravviviamo». Rimane negli eteronimi solo l'intelligenza, il ricordo della forma che li ha generati. Come una «stirpe incognita» nutrono in loro una nuova emozione: nucleo originario che riceve ed espelle il mondo, i suoi stimoli, mischiandovisi. 
Di questa sparizione che contiene in sé la traccia dello sparito Massimo Dagnino sembra aver fatto tesoro; con la tavola (e il suo “scarto”) che precedono la sezione del libro intitolata “eteronimi”. Il volto di una persona (un ragazzo, un uomo?) si forma sulle curve di livello e di profondità di una carta nautica, al limitare tra il mare e un pezzo di costa. All'altezza degli occhi un'apertura su un cielo siderale impedisce l'identificazione. La parte mancante, quella che specifica, permette il profilarsi della figura di un altro, che è lui stesso. L'effettivo si comporrà per «metonimia» più avanti, in un altro luogo; ad esempio nel suo libro d'artista, intitolato “Pessoa”; pubblicato contemporaneamente dalla stessa casa editrice. 
Un formato inusitato, che non risparmia la forma libro, nel quale l'autore affronta il poeta lusitano in un'altra prospettiva: attraverso il segno un alzato di quartiere popolare diventa un molo da cui si irradiano temi pessoani. L'univerbazione immette elementi parassitari: il veliero tarlato da un insetto sbreccia la distanza geografica e temporale, ambienti, motivi e visioni si fondono in una metamorfosi continua; come il virare al verde rame del supporto usato per libro (un'eliocopia) che liquida i confini tra sfondo e “linea”; come il camaleonte, disegnato, cambia colore non per proteggersi, ma per «sentire tutto in tutte le maniere» direbbe ancora Campos.
Davide Cortese