AUREOLE: CHI CE L’HA PIU’ GROSSA?

Quando uno nasce a Napoli, non ha né peccati da farsi perdonare, né colpe da espiare. Fu così che, quando la signora con la falce si stava avvicinando e arrivò il turno di Ciro Esposito, egli non volle davanti a sé alcun confessore e, da lì a poco, si ritrovò direttamente in Paradiso, al cospetto di San Gennaro. Questi, nel vederselo davanti così all’improvviso, un po’ si stupì, perché nessuno l’aveva preavvisato di quell’arrivo. Nonostante il nome, mise persino in dubbio che quell’animaccia fosse di sua pertinenza.

Si rasserenò e fugò ogni dubbio solo la mattina seguente, quando se lo ritrovò oltre il parabrezza, mentre parcheggiava la propria auto nei pressi del Paradiso.
“Venga, venga dottò”, gli faceva segno da lontano, mentre si sbracciava.
“Guagliò, e tu che ci fai qui in mezzo?” gli chiese il santo, con tono assai burbero.
“No, niente San Gennà, mi arrangio, cerco solo di guadagnare qualche spicciolo per il caffè”, rispose Ciro.
“Ma come… il caffè qui in Paradiso è gratis, lo sanno tutti!” - obiettò di rimando l’aureolato.
Sì, lo so, ma vedete… San Pietro è stufo della solita tazzuriella ‘e cafè Lavazza, e mi ha promesso che se gli faccio arrivare qui una marca migliore mi fa fare carriera in fretta. Così fotto pure l’aureola a qualche altro vecchio santo, che ormai nessuno più ricorda. I soldi mi servono per organizzare un po’ di contrabbando, insomma, San Gennà…”
Quando a Milano si spense tale Mario Rossi, invece, questi aveva dovuto prima spifferare tutte le sue magagne in confessione. E a più puntate, giacché il materiale d’archivio era bello pesante. Fra evasioni fiscali, tangenti e corruzioni, ci vollero tre quarti del clero milanese per ascoltarlo. Le sedute terminarono, con formale assoluzione, solo quando anche qualche tunica rossa cominciò a tremare, per i possibili coinvolgimenti nelle vicende terrene del moribondo. Il nostro Mario, naturalmente, finì dritto dritto nel regno di Satana, che gli fornì subito il forcone d’ordinanza, da affondare nella paglia con cui tener sempre vive le fiamme della dannazione eterna.
I due, dipartiti lo stesso giorno, si erano pure incrociati lungo il tragitto per l’aldilà e si erano ripromessi di farsi uno squillo per risentirsi, una volta sistemati nel nuovo mondo.
Ben presto, alle orecchie di Sant’Ambrogio giunse voce che un uomo della sua città protetta era finito fra le sgrinfie di Satana. “Ussignur, non posso mica lasciarlo là, fra tutti quei diavolacci - pensò il santo tra sé e sé, grattandosi il mento - l’è pur sèmper un milanés!”.
Immediatamente si presentò al capo dei demoni mettendogli un bel piatto di risotto con ossobuco fumante a un palmo dal naso. “Ennò!” sbottò quello. “Non posso far uscire i peccatori dal mio regno, sennò qui chi ci rimane ad attizzare il fuoco? A meno che…” L’aureolato meneghino fece cenno con capo di aver capito, si voltò sui suoi passi e riprese la strada per il Paradiso. Lungo la via, però, non si scordò di fare un’apposita sosta presso la pasticceria di tre sue conoscenti, tutte di nome Maria. 
Il giorno successivo, Sant’Ambrogio si lucidò ben bene l’aureola a raggiera delle grandi occasioni e si presentò nuovamente davanti a Satana, ad intercedere per quell’ultimo arrivato, che tanto aveva a cuore, proprio mentre il demoniaccio si sedeva al tavolo per la colazione. Il santo stava in piedi e teneva le mani dietro la schiena; da esse penzolava uno scatolotto dalla forma a tronco di cono, che riportava scritto in grande “Panettun”. Satana aggrottò sospettoso la fronte dalle folte sopracciglia, si alzò senza parlare e gli fece un mezzo giro intorno. Indi, spalancò quegli occhi infuocati e ordinò con voce solenne: “Levate il forcone di mano all’ultimo arrivato, perché Sant’Ambrogio se lo porta via con sé”.
Quella stessa sera, Ciro si rammentò della promessa fatta il giorno prima a Mario di farsi vivo, ma non se la sentì di chiamare per primo. “È meglio che telefoni lui: i milanesi tengono più soldi, ma io so’ chiù fetent” si giustificò con se stesso. Neanche l’avesse letto nel pensiero, proprio in quello stesso momento, Mario aveva impugnato il proprio telefonino all’ultimo grido, regalia per l’ultima consulenza, dell’ultimo appalto, dell’ultimo grattacielo di cui si era occupato… e aveva fatto il numero di Ciro.
“Ué, Mario bello, come stai? Ti stavo giusto chiamando. Ma dove sei finito?” - si sentì urlare teatralmente in un orecchio l’ex meneghino.
“Io sto qui in Paradiso” rispose. “Sono finito sotto la protezione del vostro San Gennaro che stamattina è venuto personalmente a prelevarmi dall’Inferno in cui ero finito. Sai com’è… lui aveva assolutamente bisogno di un bravo commercialista per far tornare certi suoi affarucci personali e mi ha barattato con Satana, in cambio di un bel cassone pieno di tarallucci napoletani. Così mi hanno riferito. Ma io ho il sospetto che dentro ci fossero solo dei mattoni. Comunque, alla fine ce l’ho fatta e mi sono piazzato bene. San Gennaro è davvero forte! E tu dove ti trovi?”
“E io pure sto qui in Paradiso, che ti credi?” replicò Ciro, con l’aria da spaccone. Poi precisò testualmente:
“Ho avuto qualche intoppo, ma adesso tutto si è sistemato: o cuorn che m’ero portato appresso ha funzionato bene. Anch’io ero finito da San Gennaro, ma quello mi ha cazziato perché mi volevo arruffianare San Pietro con la scusa del caffè e tenevo i piedi in due scarpe. Così, questa mattina al parcheggio, mi ha fatto dare ‘na bella abbuffat ‘e mazzat da una paranza di guaglioni di cui si fidava e io ho perso conoscenza. Ricordo solo che mi sono svegliato all’Inferno, dove mi hanno detto che ero arrivato chiuso in un grosso cassone. Neanche il tempo di uscire da lì dentro e di impugnare il forcone, e una voce dall’altoparlante mi chiamava perché dovevo cambiare residenza. Per l’ultimo arrivato, c’era stata una pressante richiesta da parte di un santo, veramente molto potente, a cui non si poteva proprio dire di no. Non ci ho capito niente, e col santo non ho ancora scambiato neppure una parola, ma sono in Paradiso e speriamo che me la cavo. Ne guagliò, o vuò sapé con chi sto io? Sto con Sant’Ambroeus!” 

Leonardo Schiavone