La coda del drago 14

Tornato nella modesta stanza del mio ufficio puntai subito sguardo e pistola in direzione dell’uomo steso sul pavimento. Si muoveva lamentandosi, gli occhi voltati verso di me con apprensione. Scalciai la sua arma lontano, quindi mi voltai per tenere d’occhio la porta di comunicazione con l’anticamera. Lo afferrai per i risvolti della giacca, avvicinandolo a me e alla mia pistola.

Con la canna di acciaio premuta sulla sua gola, dissi: 

- Voglio sapere chi ti ha mandato, e perché. E rispondi presto, e bene, perché sono piuttosto nervoso e propenso quindi a premere il grilletto una volta soltanto, ma definitivamente.

L’uomo si lamentò con più intensità, forse tentando d'impietosirmi. Io gli puntavo la pistola deciso.

Capì, e parlò.

- Ci hanno mandato a casa tua e qui nel tuo ufficio ad aspettarti. Non sapendo dove ti saresti prima diretto, ci siamo divisi: io e l’altro qui, e altri due a casa tua.

- Chi è il mandante?

Tentò di glissare sulla risposta, ma una maggiore pressione dell’arma sulla sua gola lo fece desistere.

- Barlett. James Barlett. Dice che rivoleva la statuina che gli hai rubato da casa. Sorrisi.

- Sì, è vero. Ma se io verrò accusato di furto lui invece lo sarà di stupro e omicidio nei riguardi di una bambina di dieci anni.

- No… non lo sapevo…

- Ecco: ora invece lo sai.

Detto questo sollevai la pistola e gliela calai con forza sul cranio. Quindi uscii dalla porta che immetteva nel corridoio e rapidamente tornai alla mia auto. Guidai nella notte il più rapidamente possibile, fino a lasciare la downtown e ad approdare in periferia. Diverse centinaia di metri prima del palazzo che ospitava il mio appartamento fermai la macchina rasente il marciapiede, caricai il tamburo sostituendo i bossoli dei proiettili esplosi con nuovi proiettili, quindi uscii dall’abitacolo e mi diressi verso casa. 

In giro non c'era anima viva, essendosi fatte le due circa ed essendo quella una zona periferica. Dalla strada non si potevano scorgere le finestre del mio appartamento, perché si affacciavano dalla parte opposta. Il portone era chiuso. Lo aprii. Il vestibolo era illuminato dai neon che spandevano una luce giallognola, quasi malata. Abitavo al quarto e ultimo piano. Scalai i gradini con cautela, e mentre lo facevo estrassi la pistola, che per quella sera aveva lavorato già tanto, ma alla quale chiedevo ancora l'aggiunta di uno straordinario. Arrivato al terzo piano mi fermai, fissando lo sguardo al piano superiore e aguzzando l'udito per captare eventuali suoni. Silenzio. Quindi ripresi la scalata, e giunto di fronte alla mia porta appoggiai l'orecchio al battente.

Questa volta udii dei rumori, relativi allo spostamento di qualcosa o di qualcuno, accompagnati da voci soffocate della quale una in lingua spagnola. Luis.

Infatti era sua la voce che disse: - Lasciatemi andare…

- Zitto, mangia tortillas! – gli rispose una voce tipicamente anglosassone.

Rimasi per un po’ in ascolto; quindi posai la sinistra sulla maniglia e la abbassai cautamente. 

La destra mosse la canna della pistola direzionandola all'interno del soggiorno, anche qui buio, come la mia agenzia era stata.

Una voce gridò: - Attenti!

Spalancai la porta e piombai all’interno. 

Intravidi tre persone, riconoscendone due: Luis e Barlett. L'altro, che come me impugnava una pistola, me la puntò contro. Mi gettai a terra evitando di stretta misura il proiettile a me destinato. Risposi a mia volta esplodendo due colpi. Il sicario fu colpito, perché emise un grido. Barlett estrasse una pistola, una automatica scura come il peccato, ma io gli fui addosso e con un colpo sferrato di piatto con la mia 38 calatagli sul polso talmente forte da fratturarglielo ottenni di fargli mollare l’arma. Questo però non mi bastava. E allora lo colpii anche alla mascella, fratturandogliela, e poi sul naso, rompendoglielo, e quindi sulla fronte, facendogli perdere i sensi.

Mi rivolsi a Luis, che ci fissava spaventato, come non riuscendo a comprendere cosa stesse accadendo.

- Come mai si trova qui, signor Gutierrez?

- La stavo aspettando, senor. Poi sono arrivati Mister Barlett in compagnia di quell'uomo, che mi ha

puntato contro una pistola obbligandomi a seguirli. Mister Barlett non ha risposto alle mie domande sul perché si trovava lì con quell'uomo, e io non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.

Ebbi pietà di lui.

- Tu ancora non sai niente, è così?

- Non so nulla, senor.

Mi feci forza, perché ce ne voleva, e presi a raccontargli tutto. Mano a mano che procedevo nella messa a nudo dei fatti, quel poveraccio atteggiava la faccia all'incredulità, all'orrore, all’odio.

- No… no… - mormorò.

- Purtroppo è così, senor Gutierrez. Ora non ci resta che raccogliere la confessione di Barlett per mandarlo nelle patrie galere e accomodare poi nella camera a gas. 

Luis Gutierrez sembrava che avesse smesso di ascoltarmi. Forse percepiva la voce del suo cuore ferito, straziato.

- Angela… - sussurrò. – Piccola mia… E io che credevo che quello schifoso fosse stato così generoso nei miei

confronti per pura bontà.

Non dissi nulla, perché nulla sentivo di potergli dire. Poi Gutierrez cacciò la mano in tasca e ne fuoriuscì con un coltello a serramanico la cui lama guizzò come la coda di un serpente molestato. Si scagliò contro Barlett, e con due fendenti alla gola gliela tagliò. Quindi si accanì sul suo volto, lacerandoglielo con ferocia sempre più crescente.

- Basta, Luis - esclamai. - Oramai è morto.

- Purtroppo - ansimò lui. - Ma se è finita per lui, è finita anche per me.

Si accasciò sul divano, lo sguardo fisso nel vuoto. 

Io fissai la scena, odiando quella professione e me stesso per averla scelta. Poi andai al telefono per allertare la polizia.


Antonio Mecca

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