Oreste
Era un'usanza annuale alla quale Oreste si affidava ogni estate. Perché ogni anno usava rileggere uno dei libri che Raymond Chandler aveva scritto: sette romanzi, 22 racconti, finanche i due libri accoglienti le lettere che il grande, immenso autore americano aveva indirizzato ai suoi vari destinatari. Peccato che le lettere inviate al suo Editore inglese fossero andate perdute in un incendio divampato nella sede della Casa Editrice, e peccato soprattutto che Chandler aveva scritto così poca narrativa. Colpa anche dell'alcool, al quale si era abbandonato fin dalla giovane età, e un po' colpa anche dell'industria cinematografica, la quale lo aveva avvinghiato come le spire di un serpente impedendogli di sfuggirle. Questo perché gli aveva garantito cospicui guadagni e facile impegno. In seguito avrebbe ripreso a scrivere a tempo pieno, completando il suo quinto e lungo romanzo, ideandone, scrivendone e concludendone il lunghissimo sesto romanzo, suo capolavoro assoluto, e stendendone seppur a fatica il settimo, fra tutti il più scarso di pagine nonché scarso e basta. C'era stato anche il tempo per un racconto: l'unico con protagonista il suo eroe, e per un'altra serie di lettere inviate a destra e a manca, le quali forse erano state le sue cose migliori. Oreste si era innamorato di quella prosa prodotta da uno scrittore che Truman Capote aveva definito uno dei grandi della letteratura americana, iniziando a leggerlo fin da ragazzo, quando lo scrittore californiano era ancora in vita. Poi si era recato nel 1970 a Los Angeles, cercando nell'archivio della Biblioteca Universitaria il Fondo Chandler, il quale accoglieva i vari scritti che Big Ray aveva prodotto e altri raccolto. Si era messo a sfogliarli, a leggerne alcuni, con l'emozione che faticava a trattenere. Di lui aveva già letto molto, se non tutto, per cui cercava cose inedite da inserire nei due grossi volumi che avrebbero accolto oltre ai sette romanzi anche alcuni racconti nonché articoli: pochi, e lettere: molte. E poi fotografie, del grande scrittore da giovane, da adulto, e da vecchio. Sempre, o quasi sempre, con un bicchiere di whisky in pugno che lo avrebbe steso come un uppercut mollato da un pugile. Sebbene lui affermasse di essere uno dei pochi scrittori capaci di scrivere anche semi ubriaco, Oreste ci credeva ben poco. Infatti la quantità maggiore e migliore della sua Opera era stata prodotta dalla prima metà degli anni Trenta alla prima metà degli anni Quaranta, quando l'occhio attento della moglie lo aveva tenuto a stecchetto. Allora sì che aveva scritto tanto e bene. Quattro romanzi e ventidue racconti. Poi Hollywood ma soprattutto se stesso ne minarono la salute e la creatività, facendolo scivolare nella voragine dell'alcolismo. Oreste però non smetteva di rileggerlo, e pur sapendo che Philip: l'alter ego di Ray, era ben poco credibile, finiva per trovarlo più credibile e reale di tanti personaggi reali ma ben poco affascinanti.
Antonio Mecca