Giovanni Verga
- 02 aprile 2017 Cronaca
"La città più città d'Italia", questa la definizione che diede Giovanni Verga nel 1881 a proposito di Milano, in occasione dell'Esposizione Universale, in un libro che parlava, oltre che di Milano, della Lombardia tutta.
Lo scrittore era nato a Catania nel 1840 e qui vi morì nel 1922, dopo avere soggiornato a Milano per vent'anni, dal 1872 al 1893, seppur tornando di tanto in tanto nella sua città di origine. A Milano, mai capitale effettiva di Italia ma di già e sempre capitale della cultura italiana il giovane Verga frequenta degli ambienti culturali soprattutto quelli degli scapigliati, libera traduzione del francese Bohème (vita da zingari), e ristoranti rinomati come il Savini e il Cova, ritrovo di scrittori e artisti vari nonché veri quali Giuseppe Giacosa, Emilio Treves e Felice Cameroni con il quale ultimo intreccerà una fitta corrispondenza epistolare a detta di chi ha avuto occasione di leggerla molto interessante sia per le opinioni sul Verismo e sul Naturalismo sia per i giudizi riguardanti la narrativa contemporanea da Zola a Flaubert a D'Annunzio. Conoscerà in seguito Federico De Roberto, autore del famoso romanzo "I Vicerè, con il quale sarà amico per tutta la vita. Il primo periodo della produzione del Verga è di impianto romantico. Dal 1871 al 1875 si avranno romanzi quali "Storia di una capinera", "Eva", "Tigre reale". Ma già nel 1874, con la novella "Nedda", ecco lo scrittore abbandonare, seppur temporaneamente, il suo primo modello di scrittura per gettarsi sul verismo. Ad essa seguirà - nel 1878 - il celebre racconto "Rosso Malpelo", storia di un povero ragazzo il quale: solo perché rosso di capelli, colore che nell'ignoranza di quei tempi veniva associato al diavolo, eccolo venire dileggiato e scansato persino dalla propria madre. Nel 1878 appare un'altra grande novella: "Jeli il pastore", che come la precedente "Rosso Malpelo" e le seguenti "La Lupa" e "L'amante di Gramigna" usciranno nel 1880 raccolte nel volume "Vita dei campi", insieme ad altre cinque novelle tra cui la famosa "Cavalleria rusticana", che quattro anni dopo galopperà sulle scene teatrali mediante una puledra di razza quale la grande attrice Eleonora Duse era, mentre: nel 1890, si tramuterà in opera con le musiche di Pietro Mascagni. L'anno prima Verga aveva pubblicato il secondo dei suoi romanzi veristi: "Mastro Don Gesualdo", essendo il primo: "I Malavoglia", uscito nel 1881. Non avendo questo suo precedente romanzo raccolto il meritato successo, lo scrittore catanese farà uscire l'anno dopo "Il marito di Elena", con un ritorno di stile alla sua prima maniera. Ma già nel 1883 ecco apparire il volume "Novelle rusticane", dove è predominante il tema del possesso, della roba, rappresentata in una famosa novella dallo stesso titolo. Nel 1893 Verga ritornerà definitivamente a Catania, con brevi ritorni a Roma e a Milano. Oltre che alla scrittura si dedicherà anche alla fotografia, sua seconda ma non meno intensa passione, forse in questo influenzato dal suo grande collega Emile Zola. Comincerà a scrivere "La duchessa di Leyra", ma non gli riuscirà di portarlo a termine a causa delle difficoltà incontrate nel cercare di mantenere la poetica dell'impersonalità verso le classi agiate che lui disprezza, nonostante le sue relazioni amorose riguardanti entrambe due contesse: la pianista Dina Castellari, contessa di Sordevolo, e la contessa milanese Paolina Greppi. Verga, a differenza del conte Tolstoi e dell'ex proletario Zola non desidera il riscatto della classe umile. La classe di Emile non è quella umile di Verga. Per cui quando avverranno le repressioni attuate dal governo Crispi e da quelle del generale Bava Beccaris, lui le approverà. Così come approverà nel primo dopoguerra anche il giovane Mussolini, socialista di nascita, dittatore per vocazione e fantasma di se stesso già prima ancora di passare a miglior vita. Vita migliore soprattutto per coloro che resteranno dopo di Lui. Giovanni Verga morirà per emorragia cerebrale il 27 gennaio 1922, l'anno in cui l'oggetto delle sue simpatie marcerà su Roma (in vagone letto) trovandosi la strada già spianata dal potere vigente affinché prendesse il comando facendo così il lavoro sporco che la monarchia: pur magari desiderandolo, non poteva permettersi di fare. La narrativa di Verga dà il meglio di sé quando parla della sua terra e dei suoi abitanti, e quando di questi prende sotto osservazione gli umili, i contadini, i pescatori, gli artigiani. In una terra bellissima ma avara di sé come la Sicilia di due secoli fa era, nascere non rappresentava poi una gran festa né per il nascituro né per i suoi genitori. La miseria e la sopraffazione erano cose grandi e soprattutto cose loro, per poi - emigrando - diventare cose nostre. L'orizzonte che questi umili avevano a disposizione non permetteva loro di intravedere un futuro granché differente dal proprio presente. Solo con il passare degli anni e con lo spegnersi delle rosse passioni che man mano che il tempo passava diminuivano di intensità senza tuttavia diventare rosee speranze, la vita di un vecchio diventando grigia in tutto: nei capelli, nella barba, nei peli perché le infuocate passioni tendevano a diventare anch'esse grigio cenere, la rassegnazione pareva conferire loro un'aura di saggezza e di pseudo-serenità. E nell'imminenza della grande partenza l'attesa non risultava essere poi così triste.
Antonio Mecca