ASSASSINIO A BORDO 1

La voce al telefono sembrava appartenere a una donna giovane di etnia americana o perlomeno così pareva ma con uno strano modo di pronunciare le parole, quasi fosse una diligente allieva di inglese che proprio per questo motivo cercasse di compitarle il più pulitamente possibile. Alla sua domanda se ero io Lew Miller l’investigatore, risposi che sì: ero proprio io.

- Vorrei affidarle un lavoro, Mister Miller.

- Se non si tratta di spaccar pietre o di ripulire i vialetti lordati da cani con la dissenteria, allora forse potrei

anche accettare.

Emise un risolino divertito. Ma era quello il divertimento di chi non è solito: almeno da qualche tempo, portato a divertirsi. 

- Mister Miller, lo scorso mese di aprile è successo qualcosa di estremamente grave - riprese.

- Sì: il terzo anno del nostro coinvolgimento nel conflitto mondiale in corso.

- Non si tratta di questo, ma di qualcosa di personalmente grave - spiegò, o perlomeno iniziò a farlo. - Un

 uomo è stato ucciso con un colpo di pistola alla tempia, mentre si trovava a bordo di un panfilo. L’assassino non è stato trovato, o più probabilmente non si è tentato neppure. Per cui continua a volare libero e indisturbato.

Fissai il ripiano della scrivania, quasi fosse lo schermo di una sala cinematografica prima che il film venisse proiettato. 

- Con chi ho il piacere di parlare, Miss…?

- Il mio nome non ha importanza - assicurò lei. - Sono soltanto una persona che intende porre fine alla latitanza di un assassino.

- Si è già rivolta alla polizia, Miss…?

Ma anche questa volta glissò sul nome.

- No: niente polizia, Mister Miller, perché la polizia non è molto affidabile di questi tempi.

- Se è per questo, non lo è mai stata in nessun tempo. Perlomeno da noi in America e di sicuro qui a Los 

Angeles.

- Vorrei raccontarle l'intera vicenda - riprese la misteriosa interlocutrice, - dopodiché spetterà a lei decidere se accettare l’incarico oppure no.

Non dissi nulla.

- Cosa ne direbbe di incontrarci di qui a un'ora al parco Silver Light, nei pressi della fontana dei delfini?

Consultai l’orologio. Erano le nove e mezzo di mattina, il sole filtrava dalle persiane riuscendo ciononostante a illuminare come lucenti lame di spade l'interno della casa sita a Hollywood, non lontano dalla mia agenzia in Cahuenga Boulevard.

- Fra un'ora sarò lì - promisi.

- Benissimo - approvò. - Alle undici, allora - e riagganciò.

Lo feci anch’io, chiedendomi chi me lo faceva fare di impelagarmi in quell’oscuro affare. Ma la risposta era chiara: mi aveva convinto a farlo il mio conto in banca, più esile di un fachiro a dieta stretta.

Il Silver Light riluceva sotto il sole pressoché perenne della California meridionale. Bambini e loro nonne, o balie oppure studentesse lo popolavano, le grida continue dei primi interrotte ogni tanto dalle raccomandazioni delle seconde o delle terze, preoccupate che i loro figli o assistiti non sudassero troppo o si facessero male. Qualche figura maschile si univa ogni tanto al loro microcosmo, e non sempre si trattava del marito o fidanzato o amante. Il verde leggermente polveroso come la divisa di un soldato che affronta la sabbia del deserto velava le siepi e l'erba dei prati, le foglie degli alberi e le piante in vaso che qualcuno di tanto in abbandonava. Poteva anche ricordare i giardini di altre città o località estere, ma si trattava pur sempre di un giardino americano, caratterizzato come era dalle parole aleggianti nell'aria che lo slang americano rendeva simili a colpi di frusta tipo quelli lanciati da Zorro.
La donna che intorno alle undici mi si fece incontro nei pressi della fontana priva di acqua dove quattro delfini in pietra grigia attendevano il prezioso liquido per poter riprendere a sguazzare felici era un tipo di statura media, di fisico magro ma non secco come il fondale della fontana ma forse arido quanto il suo animo che ancora non conoscevo, con i capelli scuri come le lenti dei grandi occhiali che le coprivano gran parte della sommità del volto la cui pelle chiara era un po’ un'anomalia nei confronti dello standard californiano. Il rossetto a tinte forti pareva il timbro apposto a siglare il risultato finale di cotanta bellezza, o il risultato dell'esplosione di un bubbone. Forse quello stesso bubbone che mi sarebbe scoppiato tra le mani di lì a poco.
La vidi avvicinarsi accompagnata dal simulacro di un sorriso che le metteva in risalto denti bianchi come l’interno delle noci di cocco e regolari come uno steccato costruito per impedire che cavalli di razza lo scavalcassero per poi galoppare liberi nella prateria.


Antonio Mecca

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