ASSASSINIO A BORDO 13

Salii i cinque gradini che innalzavano alla reception; per quanto riguardava i piani alti nonché le conseguenti alte personalità che li occupavano ci avrebbero pensato gli ascensori. Il banco della reception si trovava a sinistra dell’ingresso, presidiato da due cerberi in vacanza dall’inferno e da una ragazza che per par condicio sembrava discesa dal paradiso per quanto era giovane e bella; angelica, appunto. Fu a lei che indirizzai il mio sguardo prima e poi il mio corpo.
- Buongiorno. Mi chiamo Lew Miller, sono un detective privato che avrebbe bisogno di parlare con il signor Randolph.

- Ha detto bene: avrebbe.

- Allora? Posso incontrarlo?

- Randolph? Il signor Hal Randolph?

- Il signor Hal Randolph, sì. Ci sono altri Randolph, nel palazzo? Sorrise. - C’è soltanto lui. E basta e avanza. Sorrisi a mia volta. - Okay. È lui che mi interessa.

Si fece seria. - Per quale motivo intende incontrarlo, se posso chiederglielo?

- Certo, che può chiedermelo – risposi altrettanto serio. Lei aspettò, incerta. Sorrisi.

- È qualcosa che lo riguarda, a proposito di una breve crociera sull’Oceano l’aprile scorso. Lei ci rimuginò sopra. – Come ha detto di chiamarsi?

- Miller. Lew Miller. Detective privato.

- Okay. Si accomodi pure - disse indicandomi una serie di poltrone a destra dell’ingresso. 

Mi avvicinai e sedetti su una delle sei poltrone libere, essendo la settima e l’ottava già occupate da due uomini della stessa età: cinquanta o su per giù, che aspettavano nervosi e impazienti il loro momento. La ragazza Made in Paradise staccò la cornetta del telefono per parlare con qualcuno E gli si rivolse con il “tu”. Gli riferì che in portineria c’era un investigatore privato che voleva interloquire con il signor Randolph a proposito di una sua crociera effettuata lo scorso aprile. Aspettò, poi disse: - Va bene. - Poi riagganciò e si rivolse a me. 

- Mi farà sapere. Aspettiamo fiduciosi - e sorrise.

Un sorriso così era talmente bello da vedere e da ammirare che mi sarebbe bastato di riserva per tutto il resto della giornata. Mi disposi così all’attesa, che non fu lunga. Il telefono infatti squillò, la ragazza rispose, sorrise, e disse: - Va bene - e riattaccò. Poi volse il viso nella mia direzione e mi disse:

- Può salire, Mister Miller. Ottavo piano, ci sarà il signor Carter ad attenderla.

- Per cui potrò tramite lui viaggiare più spedito se non sulle due ruote perlomeno sui due piedi – dissi.

Lei sorrise, benevola. Io mi avvicinai ai quattro ascensori presenti rivestiti di argenteo metallo con all’interno dei due che si trovavano a terra altrettanti addetti in divisa. Entrai nel primo che mi si offriva dicendo al lift:

- Ottavo piano. – Al che lui annuì, premette il pulsante dell’otto, fremette per l’emozione di salire al piano dove Randolph dominava e predominava, le porte metalliche si richiusero e l’ascesa si avviò veloce e silenziosa. Quando approdammo al piano eletto il lift mi sorrise e si accomiatò. Trovai nel corridoio un uomo sulla quarantina, educato e sorridente.

- Mister Carter? – mi informai.

- Sì. Mister Miller, vero?

- Sì. Il vero, mister Miller – risposi seriamente.

Lui forse non capì, o forse evitò di fare commenti. Disse, invece:

- Mi segua, per favore. Il signor Randolph accetta di riceverla per qualche minuto.

- È molto occupato, è così?

- Come sempre. Un impero come il suo necessita di un controllo costante, continuo.

- Certo, capisco. Ma chi controllerà i controllori?

Anche questa volta evitò di rispondere. Lo seguii lungo un corridoio dove si affacciavano diverse porte, chiuse alcune e aperte altre, attraverso le quali si vedeva gente al lavoro. Quella a cui approdammo era l’ultima presente nella direzione da noi presa, ma di sicuro la prima in quella dalla quale partiva. Ed era anche l’unica sistemata nel fondo del corridoio. Carter bussò alla porta. 

Una voce catarrosa per le forse troppe sigarette fumate rispose: “Avanti!”.

Carter aprì la porta con delicatezza, come se invece della mano avesse adoperato l’estremità di un’ala d’angelo, per poi entrare con cautela, quasi fosse un daino che si diriga alla fonte comune dove si abbeverano anche le belve. La belva in questione era seduta dietro la scrivania in legno massiccio che troneggiava sul fondo della stanza, a sinistra di un finestrone che si doveva affacciare sul parcheggio.

Era un uomo di non eccelsa statura fisica e meno ancora di statura morale, capelli più bianchi che neri e occhi più neri del fondo di un pozzo di notte. In loro brillava una luce cattiva che poteva anche passare per decisa, una luce simile a una entità maligna infrattatasi in un bosco o in un sottobosco, là dove si tramano le cose più sporche. Mi guardò avanzare verso di lui e, senza guardare anche il suo sottoposto, a lui si rivolse con un:

- Va pure, Carter. Se avrò bisogno di te, ti chiamerò. 

Antonio Mecca

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