Binario morto

L'enorme e abnorme edificio della stazione Centrale pareva l'incrocio tra un mausoleo e un tempio sconsacrato, costruzioni entrambe provenienti da un passato lontano nel tempo e nella memoria. Dalle tre bocche delle aperture frontali era tutto un rifluire di lamentose note: gli echi metallici e sgraziati dell'altoparlante, lo stridio di freni e le partenze grintose dei taxi, l'incessante mormorio della folla dei viaggiatori. L'uomo si mescolò a quel fiume di gente come un pesce in un vivaio, e alla stessa maniera sperò di passare inosservato. Con la destra infilata nella tasca del soprabito a stringere il freddo ma rassicurante calcio della pistola prese a salire rapidamente la scalinata che conduceva al terminal dei treni. A metà altezza i gradini si interrompevano per lasciare spazio a una sorta di terrazza circondata da panchine in marmo, sulle quali seduti o stravaccati stavano turisti mescolati a vagabondi, barboni insieme a drogati. Questi ultimi - avvolti nei loro stracci e nei loro deliri - puntavano lo sguardo sulla gente dando l'impressione di non vederla, gli occhi spenti come mozziconi calpestati da tutti, la bocca piegata e piagata in una smorfia di disprezzo verso il mondo e verso se stessi.
L'uomo giunse al piano superiore, dove al di là dei cancelletti si trovavano le decine di binari diretti verso il resto del mondo, la libertà, la salvezza. Pensò che forse pure lui ce l'avrebbe fatta, come già altri in passato. Forse, gli sarebbe riuscito di abbandonare il binario morto che la sua vita era diventata a favore di un binario con una destinazione nuova, migliore esistenza. Sotto l'enorme tettoia di vetro la gente formicolante pareva un nugolo di batteri visti attraverso la lente di un gigantesco microscopio. Qualcuno o qualcosa, al di là di quella lente, stava forse osservando il destino degli uomini con la stessa fredda indifferenza di uno scienziato: senza odio né amore, lasciando che Bene e Male sbattessero qua e là come palline di un flipper impazzito.
Il suo treno sarebbe partito entro venti minuti. L'uomo, nell'attesa di salirvi, decise di dare un'occhiata ai giornali esposti e si avvicinò quindi al chiosco, simile nella bianca e fredda luce che lo illuminava a una sorta di iceberg. Le copertine patinate delle riviste e i loro titoli gli ricordarono le immagini votive esposte nella basilica della sua città di origine.
Perso in quei lontani ricordi e perduto per essi, non si accorse del barbone che lo aveva seguito dopo averlo riconosciuto sulle scale e che ora, mentre era intento a prendere i soldi per pagare un giornale, gli si era fermato alle spalle. Il "barbone" tolse di tasca una pesante pistola e sparò. Colpito alla schiena l'uomo si inarcò all'indietro, come un Cristo che perdesse l'equilibrio a causa del peso della croce. Il sicario sparò ancora, ripetutamente, mentre la gente intorno dapprima non si accorse di ciò che andava succedendo per poi, resasi conto, cominciare a urlare e a schizzare via in tutte le direzioni come schegge di vetro frantumato. L'uomo invece non poteva più fuggire, ormai. Si abbatté sul chiosco rovesciandosi sopra i giornali. Quegli stessi giornali che l'indomani avrebbero riportato scritto con l'inchiostro ciò che lui stesso andava ora scrivendo col proprio sangue: la fine di una vita, il termine violento di un'esistenza sbagliata.


Antonio Mecca

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