CODICE ROSSO Di Antonio Mecca Cap. 1

Stavo guardando alla Televisione il notiziario serale del Tg3, che quella settimana ero condotto da un medico condotto di campo di concentramento nazista, una sorta di kapò dall’espressione del volto dura e scostante, tanto perché si capisse chiaramente che su quella rete non si scherzava mica, perché la serietà era tutto. Invece era solo seriosità, maleducazione; la faccia che la esprimeva avrebbe avuto bisogno di un paio di sonori ceffoni affinché le venisse cancellata dal grugno definitivamente. Poi il citofono suonò.

Guardai l’orologio: le sette e dieci. Mi alzai dalla poltrona per recarmi a rispondere.

- Sì?

- Signor Solmi?

Sono Alberto Semprini, l’avvocato difensore di Luigi Alcesti. Gradirei parlare con lei.

- A quale proposito?

- A proposito di Anna Salviti.

Restai in silenzio per qualche istante. Poi dissi:

- Va bene, avvocato. Preferisce salire lei qui da me, o invece preferisce che scenda io?

- Se non le è di troppo disturbo, potrebbe scendere lei e insieme andare poi in un bar non troppo lontano da qui, a bere un aperitivo. O un digestivo, se ha già cenato.

- D’accordo. Aggiudicato.

Ci misi due minuti per: spegnere il televisore sull’antipatico muso della Kapò del Tg, infilare la giacca, richiamare l’ascensore, scendere dal quarto piano dove risiedevo al pianoterra dove al di là della porta di ingresso a vetri potei scorgere la sagoma di un uomo dalla costituzione robusta nonostante fosse avvocato e la costituzione fosse quindi abituato a sfilacciarla per poi avvolgersela al polso al pari di quegli imbecilli che credono di darsi un tocco di bellezza e di sensibilità in più.

Aprii la porta sull’uomo: un quarantenne dai capelli scuri come il cuoio delle sue scarpe ma non altrettanto lucidi, che mi si avvicinò con la mano tesa al pari di una tavoletta di ciak di legno pronta a battere per l’ennesima volta la scena in lavorazione.

- Signor Solmi, chiedo scusa per l’ora un po’ sul tardi, ma avevo urgenza di parlarle.

- Non c’è problema – lo rassicurai. – Non stavo facendo nulla di importante – dissi pensando alla bionda kapò alla quale mancava soltanto il frustino di cuoio da far schioccare per far saltare le notizie del suo notiziario.

- Le andrebbe di recarci al bar “Lanterna” qui vicino? – propose lui. – È un buon locale frequentato da

  persone di una certa classe.

- Intende forse declassarlo con la mia presenza?

Ridacchiò.

- No di certo. Lei non è certo uno di quei tipacci che conosco io. Questo è certo.

- E tre – rimarcai.

- Che cosa?

- I “certo” da lei pronunciati.

Lui non replicò.  

Eravamo nel frattempo giunti in via Gioia, e da lì al bar “Lanterna”, un elegante locale sui toni marrone dovuti al legno che ne ricopriva le pareti e il ripiano dei tavolini. La barista e le cameriere invece non erano certo del tipo legnoso, per fortuna loro e di noi clienti, ma giovani e fresche e piacevolmente sorridenti, al contrario della kapò televisiva. Ci accomodammo a un tavolino libero, e di lì a poco si materializzò una delle ragazze del locale con un sorriso che era una gioia come la via omonima nella quale ci trovavamo. Solo che questo era bello da vedere e frequentare, quella invece l’esatto contrario.

Il traffico di fine giornata con i suoi automezzi pareva una serie di verruche devastanti una faccia già non bella di suo la quale ora appariva insopportabile e basta.


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