Dal grattacielo non si vedono i 'barba'
- 13 giugno 2018 Cultura
Certe immagini restano indelebili! Segnano confini ideali tra civiltà contrapposte. Il grattacielo Pirelli segnava il confine tra la città industriale e la campagna. È un documento e come tale va datato. Sono passati anni dal mio primo incontro con il grattacielo Pirelli, ma il ricordo è vivo e si rinnova. Arrivai a Mlano dopo 15 ore di viaggio, con il tristemente noto Treno del Sole, la mattina del 10 gennaio 1960. Durante la notte, complice il dormiveglia sui duri sedili di legno, non avevo fatto altro che amplificare i racconti dei miei amici che già lavoravano a Milano.
Uscito dalle lunghissime scale della Stazione Centrale, rimasi sbalordito. Era vero il racconto dei miei compagni: “Antò vedrai come è alto quel palazzo!” Rimasi a guardare, con la bocca aperta, tra mille spintoni di coloro che urlavano per sorpassarmi. Il grattacielo più grande d'Europa? Così mi avevano riferito, a forma di osso di seppia con 127 piani, scelto e voluto dalla famiglia Pirelli. Inaugurato l'anno precedente il mio arrivo a simboleggiare il dominio del capitalismo sulla città. Ed era vero! Il grattacielo riusciva a impressionare per la sua mole e meravigliare per la sua forma e bellezza. Un giorno riuscii a salirvi. Dalla Stazione lo sguardo arrivò alle propaggini dei monti e dei laghi e mi dava tanta speranza: rafforzava in me l'idea che avrei trovato lavoro... che a Milano si stava bene. Anche i mie compagni mi parlarono di miracolo economico, poi scoprii che non era tutto vero. I giornali non parlavano della fatica degli operai e impiegati: 250mila ogni mattina arrivavano a Milano con tutti i mezzi possibili: 40 mila uscivano dalle stazioni milanesi e ripensai ai venafrani che partivano alle 4 del mattino con il treno per raggiungere Roma.Ma io dall'alto del Grattacielo quella mattina non pensai alla fatica. Né dal 27° piano potevo vedere i barba, i barboni, i poveri che erano tanti a Milano. Erano circa 4.000 le persone che consumavano i pasti nelle mense pubbliche dell'Ente Comunale di Assistenza di Viale Ortles, di Piazzale Bacone, di Viale Toscana, di Piazza Gerusalemme, di Piazzale Cantore. Dormii anch'io nel dormitorio pubblico di via Breme. Dall'Albergo popolare di Via Marco d'Oggiono molti uscivano al mattino presto per mendicare davanti alle Chiese. La ricerca di un lavoro legale era difficile per chi frequentava i dormitori pubblici. La legge comunale e provinciale del 1934 li paragonava agli infermi di mente o ai condannati per reati comuni. All'inizio anch'io ero in difficoltà senza una qualifica richiesta dall'industria. E lo ricordo bene! Il mio compaesano Antonio Cimorelli, muratore che lavorava anche 10, 12 ore al giorno, abitava in via De Monte al numero 2, me lo ripeteva tante volte: “Antonio non partire. Qui cercano solo i muratori bravi e non diplomati maestri”.
Vagando per Milano conobbi i tenga tenga, mendicanti della domenica davanti alle chiese, offrivano immagini religiose sussurrando 'tenga, tenga', con una musicalità infinita, in cui la parola diventava suono metallico. Dove c'era una panchina c'era un 'barba', con tanti fogli di giornali e cartoni. Agli angoli delle pensioni sempre donne impegnate nel mestiere 'più vecchio del mondo': era la prima volta che sentivo questo epiteto. Eppure la sensazione era che avrei trovato un lavoro! Milano era ed è una città ospitale. Trovai lavoro. Grazie Milano!
Antonio Masi