È ORA, FRATELLO 2 - di Yari Lepre Marrani

Con mia sorpresa riuscii a mettermi in piedi ed allungando le mie braccia in avanti compresi che le catene che le imprigionavano al letto erano lunghe più di quanto immaginassi e mi permettevano di muovermi. Feci qualche passo verso destra, verso il muro e tale constatazione mi fu confermata: ero da esse legato ai piedi del letto ma non avvinghiato ad esso in modo integrale poiché le catene erano abbastanza prolungate da concedermi di spostarmi. E mentre cacciavo a forza, a calci, quegli schifosi sorci dagli occhi diabolici che continuavano a disturbarmi, mi avvicinai al muro retrostante il mio letto senza cuscino. Appoggiai la mano su di esso e sentii la pietra umida deteriorata, forse, dai secoli e vidi le infiltrazioni d’acqua fuoriuscire dalle crepe sottili di quel muro; vi toccai un’altra parte e le mia mano sentii, oltre all’umidità, dei muschi morbidi e bagnati che vi si erano formati in alcuni punti e che coprivano un pezzo abbastanza ampio di quella parete dov’ero mi ero accostato. Ero certamente in un luogo vecchissimo, sporco, con muri pietrosi umidi per le ripetute infiltrazioni. Avrei voluto scappare ma non potevo considerato che ero prigioniero o meglio, imprigionato, per chissà quale motivo o colpa. Non capivo e il non comprendere il perché fossi lì riacutizzò i dolori alle gambe con una spiacevole nausea che corrodeva il mio stomaco ed un tormento che era nella mente ma somatizzavo, con questi malesseri, in tutto il corpo. Fu allora che decisi di accendere uno di quei fiammiferi per vederci meglio perché la luce del sole che proveniva dall’angusta grata, in prossimità del soffitto, dava su un punto preciso del pavimento dove vedevo, solo e soltanto, quei sorci luridi che correvano e scappavano come imbizzarriti, squittendo di continuo. Presi uno dei fiammiferi in legno e ne tastai con il dito la capocchia. Non avevo modo di accenderlo, non avevo carta abrasiva o vetrata per strofinarci la capocchia, così decisi che avrei usato il terreno per la bisogna. Mi spostai di più verso il letto dalla mia precedente posizione accanto al muro muschioso, sentivo lo sferragliare delle mie catene che accompagnava tutti i miei pochi passi e giunsi, credo, verso il centro della cella. Fu a quel punto che fui agghiacciato da qualcosa che non volevo aver intravisto, prima di accendere il fiammifero. Mi sembrava di vedere, nella parete opposta innanzi alla quale mi trovavo, l’immagine di un teschio incastonata nel muro le cui orbite oculari mi osservavano fisse. Così mi piegai a terra, pur tra i dolori diffusi alla schiena, e strofinando la capocchia del fiammifero per terra lo accesi e subito quanto avevo attorno mi divenne più visibile. E rimasi agghiacciato come prima immaginavo. Davanti a me, a circa un metro, un teschio bianco e giallastro fuoriusciva dal muro umido e pietroso per metà ed era proprio di fronte a me quasi a sorridere, dalla sua fissità funerea, del mio stato. Non ero in un luogo felice, questo l’avevo capito sin dall’inizio. Scostai impetuosamente la mano reggente il mio fiammifero verso terra e vidi con angosciante sgomento che, accumulati a mucchi nell’angolo a destra dove mi trovavo io, c’erano altri teschi, sparsi per terra, a farmi macabra compagnia, alcuni non ancora interamente scarnificati ma con lembi di pelle marcia sul capo o sulle guance. “Nooo!!Cristo!!!” gridai dall’orrore penoso ma credo che nessuno mi sentii e io udii rimbombare tristemente la mia voce in un cupo eco nelle profondità di quella prigione nella quale ero rinchiuso. Forse ero all’inferno, forse ero morto, continuavo a non capire. La cosa che sentivo era che ero disperatamente solo in quel sotterraneo che pareva abbandonato da voce umana e quando scostai bruscamente il fiammifero dall’illuminazione di quegli orridi resti di teste umane abbandonati all’angolo delle cella, il fiammifero si spense  per la velocità con la quale l’avevo agitato per deviarmi dall’orrenda visione. E mentre ritornavo nelle tenebre aumentarono gli squittii di quei sorci che, in una danza macabra, mi ronzavano attorno ai piedi forse sperando di azzannarmi se gliel’avessi permesso. Ma io li cacciavo da me a forza di calci, li schiacciavo sotto i piedi, li colpivo con rabbia, cercavo di fare il vuoto attorno a me. Iniziai a sentirmi disperato e tornai a sedermi sul materasso rigido dal quale ero partito chiudendomi la faccia piangente tra le mani con un terrore montante per la tragica coscienza di essere in un luogo di morte e distruzione, imprigionato, chiuso nella mia cella accanto a quei teschi spaventosi che mi facevano triste compagnia. Ma non mi arresi.
 
continua domani alle 24

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