È ORA, FRATELLO 9 - di Yari Lepre Marrani

Uno dei frati mi prese dolcemente a braccetto e l’altro agitava il suo rosaio e la croce per l’imminente preghiera. “Andiamo figliolo” mi dissero assieme. “No…non voglio morire!! Dio, non voglio morire!” gridai io mentre il bestione di destra, alla mia presunta resistenza a incamminarmi verso il patibolo, entrò nella cella avvicinandosi bruscamente al mio corpo e spintonandolo: non solo per farmi uscire e camminare ma per rassicurarmi, con il suo tono, che non c’era più scampo per me ed era meglio che mi avviassi con le buone se volevo evitare  le cattive cioè, magari, di finir tagliato in pezzi là su due piedi. E così iniziai a camminare con i due frati scheletrici al mio fianco, tra lamenti di angoscia, spasmi dello spirito e…rassegnazione. A quest’ultima mi prostrai stremato e da essa trovai forza per uscire dalla cella verso la morte. E uscii da quella cella dove prima speravo di scappare libero e salvo. Io ero nel mezzo, tra i due frati e tutti e 3 iniziammo a camminare lentamente lungo il corridoio pietroso, tra le mura vetuste, alte e inquietanti di quella prigione. Camminavo piano, troppo piano e uno dei due energumeni incappucciati mi diede uno spintone alla spalla che quasi mi fece cadere a terra. Camminavo e in quegli istanti non pensai ad altro che alla disgrazia che mi stava colpendo tanto ingiustamente senza nemmeno concepire il perché mi trovassi lì e stessi avviandomi al patibolo. Mi girai indietro, verso i due giganti con le accette in mano e li vidi fissi come il marmo a guardarmi con i loro occhi scuri celati dai cappucci del boia. I due frati erano accanto a me, recitando anzi bisbigliando le loro preghiere e così arrivammo all’inizio dell’alta scalinata che portava fuori dalla prigione. La guardai che saliva verso la porta ferrata che prima avevo sentito aprirsi con il suo stridore metallico. I gradini non avevano fine, salirli e accedere all’inferno che mi si preparava fuori mi frenò per pochi secondi le gambe, il  sentimento della rassegnazione che già mi aveva conquiso mi obbligò a procedere verso la fine. Mi sentii il Cristo che deve salire con la croce sulle spalle sino al Golgota e nelle mie condizioni salire quelle infinite scale non era cosa poi tanto differente. Ero lento nell’incedere così entrambi i frati mi presero delicatamente per le braccia ad invitarmi ad accelerare il passo, sempre nella loro maniera evangelica. “Signore, monda quest’uomo dalle sue colpe prima che t’incontri nel tuo splendore salvifico” disse un frate mentre partivamo per la lunga gradinata. “Ma…io non ho fatto niente, niente! Sono innocente, muoio innocente, lo capite?!” “Ricorda quanto disse Mosè  “Ciascuno pagherà pel proprio delitto” . Pentiti figliolo, monda la tua anima e continua a pregare nell’infinita misericordia di Nostro Signore” disse il frate con il suo crocifisso tra le mani mentre salivamo, scala dopo scala, io con la fatica del corpo e la costernazione, loro più agilmente. Quei due frati erano l’anticamera della morte nera, della putrefazione, della decomposizione e io morivo innocente con quei due cadaveri viventi che m’assistevano nel mio lutto. Continuai a ripetere “Qui c’è un tragico sbaglio, io non ho fatto niente e non so nemmeno perché sono qui. Perché devo morire, perché?!!” “Raccogli le tue restanti forze per il tuo prossimo incontro con l’Altissimo e mondati dal tuo delitto, figliolo. Prega, prega” disse il frate a destra con un’inaspettata aggressività che non gli sospettavo. Al quindicesimo scalino il frate alla mia sinistra ripetè per due volte “E’ ora, fratello, è ora. Non smettiamo di pregare, non smettere di pregare”.E continuammo a salire, gradino dopo gradino, verso il mio Golgota. Il mio corpo mi pesava, l’oscurità aveva momentaneamente annebbiato la mia vista, piangevo, gemevo, disperavo ed arrivai ad appoggiarmi alle braccia di quei frati. “Non voglio morire, capite?! Lo capite?! Muoio a torto, non ho fatto niente, niente, niente!” “Calmati figliolo, non lasciare all’orgoglio e alla paura la vittoria sul tuo pentimento. Signore, lascia che questo figlio che stà per raggiungerti mandi a te un’oblazione sincera in pena del suo delitto!” gridò uno di quei due mentre sempre più  smarrivo la ragione e diventavo uno strumento nelle mani di ciò che orrendamente mi circondava. Si, era l’inferno che mi aveva catturato nelle sue chele ma… perché proprio a me? Ero colpevole e non lo sapevo. Ma io non ero colpevole e se ero stato condannato a morte dovevo aver ucciso qualcuno…ma chi? No, io ero innocente! E non ricordavo nessun processo, nessuna condanna, solo il mio risveglio sul pagliericcio di quella cella sporca di sorci e teschi scarnificati. 

continua

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