E SCIASCIA CHE NE DICE?
- 05 aprile 2019 Cultura
Mostra dedicata a Mino Maccari e a Leonardo Sciascia
Inaugurata il 7 febbraio prosegue fino al 12 aprile in una sala del Castello Sforzesco la mostra: "E Sciascia che ne dice?", dedicata ai due grandi artisti italiani del Novecento Mino Maccari e Leonardo Sciascia, entrambi scomparsi nel 1989 - Maccari il 16 giugno, Sciascia il 20 novembre. Nella vasta sala è raccolta una nutrita serie di quadri: a olio, in linoleum, ad acquaforte, ad acquarello; di disegni: a carboncino o a matita - opere di Maccari - di lettere indirizzatesi a vicenda dai due amici nell'arco di molti anni, un arco che ha saputo scagliare frecce e frecciatine a vari bersagli della società italiana. Vi sono poi caricature sempre di Maccari corredate da battute fulminanti, e scritti di Sciascia indirizzati all'artista senese, che era nato a Siena, appunto, il 24 novembre 1898, da famiglia della piccola borghesia. Il padre lo indirizzò agli studi umanistici mentre il figlio avrebbe desiderato - perché portato fin da piccolo - specializzarsi nel disegno e nella pittura. A diciannove anni Mino: fervente interventista, partecipa alla grande guerra col grado di ufficiale di artiglieria di campagna; alla fine del conflitto riprende gli studi fino al 1920, anno in cui otterrà la laurea in giurisprudenza. Inizia quindi a fare praticantato nello studio di un avvocato, per poi nel tempo libero dedicarsi alla amata pittura. Nel 1922 è uno degli aderenti alla marcia su Roma e nel 1924 inizia a collaborare alla rivista "Il Selvaggio", dove pubblicherà le sue prime incisioni nella speranza di incidere anche nella società del suo tempo. Il giornale è dichiaratamente fascista, insolente come l'ideologia alla quale si ispira ma, quando alcuni anni dopo il regime si imbarcherà in una via meno guascona, si orienterà verso un'altra visione dell'arte e della cultura. Nel 1926, dopo una serie di salti a due per due: 1922; 1924; 1926, Maccari ne assumerà la direzione che manterrà fino al 1942. Dal 1930 lavorerà anche Per "La Stampa" di Torino - il cui direttore in quel periodo è il corregionale Curzio Malaparte - in qualità di caporedattore, e - quindi - a "Quadrivio", "L'Italia Letteraria", "Omnibus" di Leo Longanesi e "Il Mondo" di Mario Pannunzio. Scrive anche divertenti racconti, uno dei quali è stato riportato nella mostra e riprodotto nel libro "Il catalogo è questo!" in vendita nel cosiddetto bookshop del castello. Maccari è autore anche di fulminanti battute a volte erroneamente attribuite a Flaiano, come: "Il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto, e l'antifascismo". O: "Ho poche idee, ma confuse". Fra le sue batture corredate di disegno c'è quella risalente all'aprile 1978 il cui disegno rappresenta il ministro Gui, coinvolto nello scandalo Lockheed, con un aereo in mano e la soprastante scritta: "Gui prodest?". Nella sua lunga vita e in quella molto meno lunga di Sciascia, i due intellettuali - seppure da posizioni e opposizioni diverse - si divertirono a schizzare caricature disegnate o scritte di personaggi della vita o malavita pubblica, dell'affare o malaffare politico, talvolta soffocando nell'ironia l'amarezza che il nostro bel Paese è in grado di suscitare ma non di resuscitare le antiche origini tracciate dai padri fondatori della costituzione. Ma se la teoria è un conto, la pratica è un altro conto: spesso salato come il pane guadagnato in terra straniera. Montanelli affermava che la sua idea di Destra era quella di un'ideologia mai esistita veramente, e questo si può affermare anche per la democrazia da molti rimpianta o - più probabilmente - vagheggiata. C'è invece nostalgia per un passato di intellettuali intelligenti, dotati ma non oscuri al grande pubblico dei lettori, che realizzavano le loro opere con grande talento procurando in chi ne usufruiva il piacere che sempre procura un'opera in chi è in grado di comprenderla e apprezzarla. Non bisogna però dimenticare che quel passato tanto spesso rimpianto con lacrime di coccodrillo sazio perché rimpinzatosi di prede era sì probabilmente migliore in quanto ad arte, ma non il Paese che la produsse. Ci furono infatti gli anni della dittatura imperante, della guerra provocata scelleratamente, del dopoguerra asfittico perché dominato dai due partiti della maggioranza chiusi nel loro potere intollerante, da una Chiesa opprimente nei suoi dogmi, da un terrorismo doppio sopportato da Servizi altrettanto doppi. Per cui, così come dobbiamo essere indulgenti nei confronti di persone anche intelligenti che non riuscirono a comprendere dove certe idee le avrebbero portate - o deportate - dobbiamo o dovremmo essere più consapevoli della fortuna che abbiamo nel vivere in un'epoca come la nostra. Purtroppo la violenza quotidiana è il prezzo da pagare per il privilegio di avere evitato un nuovo grande conflitto che destabilizzasse le conquiste ottenute. Ma dobbiamo sempre cercare di non disperare troppo nel presente e di sperare molto nel futuro, come la scrittrice Chiara Gamberale che ha chiamato la propria figlia Vita (col nome del padre Vito Gamberale) anche perché una nuova vita è sempre sinonimo di speranza.
Antonio Mecca