GIALLO A VERBANIA 12

- Bisogna avvertire subito la polizia – esclamò.

- Certamente – approvai. – Prima però vorrei porle alcune domande. Era a conoscenza di una

  amicizia intercorrente tra sua figlia ed il ragazzo americano di cui prima le parlavo?

Lei scosse il capo.

- No. Mia figlia altrimenti me ne avrebbe parlato.

- Cosa faceva, sua figlia? Studiava ancora o lavorava?

- Studiava all’università statale di Milano. Era al terzo anno di giurisprudenza.

- Andava bene a scuola?

- Sì. Perché si applicava molto. Come molte ragazze. Lei crede che quell’americano… Tom, l’abbia rapita? Crede forse che siano fuggiti in America? Mi venne da sorridere.

- No, non lo credo, e non solo perché non avrebbe avuto senso. Anche lui è scomparso all’improvviso, e senza portare con sé nessuno dei suoi effetti personali.

- Quindi, entrambi sarebbero stati rapiti, o uccisi, e per quale motivo poi?

- È quello che intendo scoprire, signora Giansiri.

- Sì, ma ora bisogna avvertire gli inquirenti…

- Certo. Ha ragione. Mi alzai, tendendole la mano e le dissi:

- Penso che ci rivedremo presto, e che altrettanto presto sapremo entrambi qualcosa. Lei mi fissò speranzosa ma al tempo stesso abbattuta perché da quella speranza nulla di buono sentiva che le sarebbe venuto. Approdai nuovamente a Intra con il traghetto delle 18,30. Dalla graziosa cittadina piemontese tornai a Pallanza in via Vittorio Veneto. All’altezza dell’hotel Diana svoltai a destra per raggiungere il piazzale antistante il vetusto edificio. A piedi salii gli scalini che conducevano all’ala laterale dell’ex albergo, là dove si trovava la porta chiusa che immetteva nello scantinato. Avevo portato con me una torcia elettrica e un coltello la cui lama sottile adoperai inserendola nella serratura. Dopo vari tentativi andati a vuoto mi fu possibile ridurla a più miti consigli facendola sbloccare e consentendomi così di aprire la porta. Azionai poi la torcia e presi a scendere la vecchia e umida scalinata che conduceva alla cantina. Al piano sottostante mi ritrovai in un ampio stanzone contenente scansie semivuote e qualche scatolone di legno o di cartone. Gli scatoloni erano o vuoti o contenenti vecchi giornali oppure bottiglie ormai svuotate oppure carabattole antiquate e inutilizzabili. Con la luce della torcia illuminai il pavimento, sudicio e coperto dalla polvere accumulata. Notai che sull’umido del pavimento erano presenti alcune impronte di suole, nonché una striscia che dall’ingresso portava fino al centro della stanza, come se qualcuno fosse stato trascinato facendogli spenzolare le gambe e strusciare il suolo con la punta o con il tacco delle scarpe. Inoltre, vi erano tracce delle ruote di un ciclomotore che dall’ingresso arrivavano fino a dove mi trovavo io.

Rimasi a pensarci su per un po’. Quindi frugai nella stanza senza trovarvi nulla di ciò che speravo dovesse trovarsi. Dopodiché risalii alla superficie e alla luce del giorno morente, facendo ritorno alla mia auto e, da lì, all’albergo. 


Antonio Mecca

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