I Ragazzi di via Pàl - Ferenc Molnàr
- 06 giugno 2019 Cultura
A cura di Stelio Ghidotti
INCIPIT
Erano le dodici e tre quarti.
Proprio in quel momento sulla cattedra del laboratorio di scienze naturali, dopo lunghi e scoraggianti tentativi, nella fiamma incolore del becco di Bunsen apparve finalmente, anche se un po’ svogliata e quasi solo per non deludere tanta attesa eccitata, una luminosa striscia color verde smeraldo: provando in tal modo che una data combinazione chimica, che, secondo l’affermazione del professore avrebbe tinto di verde la fiamma, effettivamente l’aveva tinta di verde.
E, alle dodici e tre quarti in punto, proprio in quel momento di giubilo, nel cortile d’una casa vicina si mise a suonare un organetto, spazzando via di colpo l’atmosfera solenne del grande avvenimento. La finestra era spalancata in quella tepida mattinata di marzo, e le note, trasportate da una brezza primaverile, invasero l’aula. Erano le note di un’allegra canzone magiara, la quale però, grazie all’infernale organetto, si trasformò in una chiassosa e confusa marcia alla viennese, così che a tutta la classe venne una gran voglia di ridere e taluni, infatti, sghignazzarono in sordina.
FINIS
Il giorno dopo, a scuola, quando nel silenzio raccolto, quasi religioso della classe, il professor Ràcz, con passi lenti e solenni, salì in cattedra per commemorare con alcune commosse parole Erno Nemecsek e per invitare tutti quanti a trovarsi l’indomani, alle tre del pomeriggio, vestiti di nero, o per lo meno di scuro, davanti alla casa di via Ràkos, Jànos Boka, con aria tesa, teneva gli occhi fissi sul banco davanti a sé: nella sua pura e semplice anima di ragazzo per la prima volta si affacciò la vaga intuizione che la vita degli esseri umani fosse, innanzi tutto, una cosa difficile: da vivere e, tanto più da capire.