IL RACCONTO DELLE 22 Nadia - 9
- 24 settembre 2020 Cultura
- Andiamo - dissi alla ragazza con voce fredda.
- Non capisco - rispose lei. - Cosa sta succedendo?
- Quello che succederà, ancora non lo sappiamo. Quello che già è successo, invece sì.
Il cancello era aperto. Nel parcheggio si trovavano diverse auto, presumibilmente di condomini.
- Conosce per caso quale sia la macchina di Brenda? - chiesi alla ragazza.
- Mi pare una Volvo. Sì - ripeté più che altro rivolta a se stessa. - Una Volvo color cappuccino.
- Se ci fossimo trovati nell’Italia di alcuni decenni fa proprio di un cappuccino avrebbe avuto bisogno per confessarsi prima dell’esecuzione della condanna a morte.
Procedemmo fino alla porta del numero 5B, dove sulla griglia campeggiavano vari nomi. C’era un solo nome femminile, privo di cognome. Brenda, appunto.
Premetti il tasto del campanello che lo riguardava. Passò un minuto. Due minuti. Stavo per schiacciarlo ancora, quando dal citofono fuoriuscì una voce.
- Chi è?
Era la voce artefatta di un uomo altrettanto artefatto perché si crede una donna, una voce fasulla a cui si aggiungevano una nota di paura e di sospetto.
- Sono uno che ha assistito al tuo exploit nel parcheggio del supermercato.
La risposta non arrivò subito. Quando giunse, la voce sembrava avere sostituito la paura con la decisione.
- Cosa vuole?
- Che tu scenda per poi discuterne.
Ci fu ancora una pausa, ancora della medesima lunghezza.
- Adesso scendo - rispose con rassegnazione togliendo poi il contatto.
Mi rivolsi alla ragazza.
- Si nasconda dentro la nostra auto - le dissi porgendole le chiavi. - Io cercherò di farlo confessare.
- Può essere pericoloso - disse lei preoccupata.
- Già, ma non è detto che lo sarà per me.
La ragazza si avviò alla mia auto, aprì la portiera dalla parte del guidatore e si sedette poi dietro al volante. Di lì a poco la porta a vetri della scala 5B si aprì, e una figura alta, in apparenza femminile venne inquadrata sulla soglia. Indossava un soprabito scuro, così come scuri erano gli stivali che calzava. Il viso che man mano si avvicinava potevo distinguere nei lineamenti era scuro anch’esso, con la bocca dipinta dal rossetto che tremolava visibilmente. Gli andai incontro.
- Perché, Brenda? - gli chiesi. - Perché quell’omicidio, perché tutta quella serie di telefonate di minaccia?
- Chi sei? Cosa vuoi da me?
- La verità. Nient’altro che quella.
Mi scrutò con sospetto. Nessuno transitava nei pressi, che venivano disturbati soltanto dal rumore incessante delle auto provenienti dalla vicina via Feltre dirette a Milano Due o a Segrate oppure nel verso opposto, a Milano.
- Non volevo ucciderlo, non volevo… - disse poi. - Ci siamo dati appuntamento al parcheggio del supermercato, in un angolo poco illuminato, poco frequentato. Io lo amavo, capisci? Mi aveva fatto credere che anche lui amasse me, che mi sarebbe stato possibile convivere con lui e vivere una storia di amore, di passione. E invece eccolo mettersi con quella là, che me lo ha portato via, che lo ha accalappiato facendone il suo animale domestico.
Lui già sospettava fossi io il mittente dei messaggi alla sua ragazza, e voleva saperlo direttamente da me, prima di rivolgersi alle forze dell’ordine. Io ho cercato di dissuaderlo, l’ho pregato, supplicato di tornare da me… ma non c’è stato niente da fare. Allora ho preso il pettine con il manico lungo e appuntito che sono solita utilizzare per il mio lavoro e l’ho colpito alla gola. Ripeto: non volevo ucciderlo, ma sono stata sopraffatta dall’ira, e non ho visto più nulla.
- Tranne il punto preciso dove meglio colpirlo – dissi io.
Sfilò il pettine dalla borsetta, la cui impugnatura era ancora macchiata di sangue.
- Consegnamelo, Brenda - intimai.
Lui sollevò lo sguardo dal pettine a me. Poi sul volto comparvero ombre che ne offuscarono i lineamenti, imbruttendoli ulteriormente. Prese ad avvicinarsi verso di me, lentamente, il pettine sollevato come l’arma impropria che era.
- No!
La voce di Nadia arrivò all’improvviso, seguita dalla ragazza che correva verso di noi.
L’uomo-donna si voltò, la riconobbe e sul suo viso avvenne un altro stravolgimento.
- Maledetta! Tu qui!
Le si scagliò contro, gli occhi devastati dall’odio, la bocca tremolante dalla quale fuoriuscivano frasi sconnesse come la sua stessa esistenza. Io avevo nel frattempo sfilato dalla cintura la pistola, sbloccandone la sicura.
- Fermati! - gridai puntandogliela contro. Non si fermò di sua spontanea volontà, bensì spinto dall’impatto di un proiettile a una gamba, che lo azzoppò come un cavallo che ha preso una storta. La storta di una esistenza sbagliata. Tentò ugualmente di raggiungere quella che considerava la rivale, ma venne fermato dalla canna della mia pistola che gli calai sulla testa.
Antonio Mecca