LE BATTUTE ROMANE
- 18 settembre 2020 Cultura
Dal nostro inviato a Roma
Espressione della saggezza popolare
Caratteristica di Roma che salta subito all'occhio, o meglio all'orecchio, è il suo dialetto, l'accento perlomeno, ascoltato in centinaia di film prodotti in decine di anni. La parlata romana non è generalmente rapida, veloce, come quella di altre regioni d'Italia, ma più lenta perché come più riflessiva su quanto si sta per dire. Nel tono si avverte sempre come un po' di scetticismo sul pensiero espresso. Il romano, che ne ha viste e sentite tante nel corso dei secoli, cerca di mantenersi sulle sue e di esprimersi con cautela, diluendo il discorso con battute che sono poi l'espressione della saggezza popolare. È piacevole ascoltare i suoi abitanti parlare in quella lingua vecchia di secoli; sembra di ascoltare attori che si esibiscono su un grande palcoscenico dove il pubblico - se romano - si mescola con le maschere alternandosi come protagonista a sua volta, perché generalmente il romano non ha mai rappresentato la servitù della gleba per via del proprio orgoglio, il quale gli deriva dalla consapevolezza della sua grande storia. Insomma non è mai solo spettatore ma anche protagonista a sua volta. Certo, c'è romanesco e romanesco. Quello trucido, strascicato, volgare non piace neppure alla maggior parte dei romani, perché sembra squalificarli agli occhi delle persone, straniere soprattutto. Inoltre c'è chi se ne approfitta, anche se appartenente alla buona borghesia cittadina. Cinquant'anni fa Nino Manfredi, all'epoca in cui stava lavorando come attore e regista al suo capolavoro "Per grazia ricevuta", diede a Lina Coletti, giornalista di punta del settimanale "L'Europeo", un'intervista dove alle domande ovviamente poste in italiano dalla giornalista rispose non altrettanto ovviamente in puro romanesco, mostrando così un disprezzo pressoché totale per la stenografa che doveva riportare su carta parole in dialetto stretto e soprattutto per il pubblico dei lettori che nella loro maggioranza non erano romani. Manfredi del resto sembra non fosse così come appare nella biografia agiografica realizzata per la Televisione dal figlio Luca, e che del resto si ferma a inizio 1960, quando l'attore riscosse il meritato successo decretatogli dal varietà Canzonissima condotto al fianco di Delia Scala e Paolo Panelli. Da allora gli si spalancarono le porte del Cinema dove interpretò una lunga serie di film di cassetta. Forse perché ammalatosi in tenera età di tubercolosi e destinato a morire in ancor tenera età, la sua scorza divenne più dura e lo rese più cattivo nei riguardi ben poco riguardosi di colleghi. Ricordo un collegamento in diretta su un programma pomeridiano della Rai dove si trovava al fianco di un noto attore anch'egli romano famoso per i suoi ruoli western. Qui prese in giro con intenzione i gay, tanto da far replicare al suo collega di 17 anni in meno e che probabilmente era ambidestro come molti suoi personaggi di pistoleri dello schermo, più o meno questo: "Verrà il giorno che una tendenza simile non sarà più motivo di scandalo". Manfredi, originario di Castro dei Volsci, fu accostato a Eduardo in quanto a bravura e a stile; e, almeno per quanto riguarda la cattiveria, sicuramente lo fu. Personalmente mi è capitato di assistere, divertendomi, alla telefonata fatta da una giovane cinese in piazza Barberini,che parlava un "romanaccio" di trivio nel quale le "erre" rispondevano tutte quante all'appello senza venir sostituite dalle "elle". La poesia: soprattutto quella di un tempo lontano ottimamente rappresentata da Trilussa e Giuseppe Gioacchino Belli è ironica e spesso non priva di saggezza, quella saggezza agrodolce da agro pontino che si ritrova in momenti particolari come nella campagna bagnata dalla pioggia e nel cielo immenso che sovrasta la capitale, ma che si trova anche nelle ricette della loro cucina, pesante ma gustosa, dove pietanze a base di carne e verdure si affiancano al buon vino dei Castelli e all'ottima acqua minerale che nel Lazio rappresenta una delle ricchezze della regione. Il cinismo del dialetto romano è un'arma tipo fioretto che punge ma non espunge, non ferisce né tanto meno uccide, un'arma spuntata da secoli sui suoi tanti denigratori. Denigratori che si riempiono ora la bocca col termine "italiani".
Antonio Mecca