QUANDO IL CONFORMISMO MENEGHINO CAUSO' UNA VITTIMA

È una vicenda che risale a qualche anno fa. Se ne occuparono anche i giornali.

Dalle parti di Porta Vittoria, a due passi dal centro, si trova un bel palazzo di fine ‘800 dove anch'io ho vissuto da giovane assieme ai miei genitori.

I suoi occupanti d’allora, avvocati, avvocati, liberi professionisti, imprenditori, avvocati, andavano d’accordo e si dimostravano sempre cortesi l’un l’altro. Tra questi vi era una coppia sulla sessantina, Alfredo e Lara (nomi di fantasia), lui ex tassista e lei casalinga, ultimi scampoli di una Milano alla buona in via di estinzione.

Pur non vivendo più lì, ma sempre nel quartiere, mi capitava spesso di incontrare Alfredo quando andavo a spasso col mio cane. L’uomo, claudicante, con il bastone e un sorriso dolce-amaro, si soffermava ad accarezzarlo affettuosamente chiamandolo “il mio amico”. Incuriosito da quel singolare e tenero individuo, mi intrattenevo più del dovuto perché avevo la sensazione che fosse profondamente solo.

Una diversa impressione suscitava in me la moglie di Alfredo; conosciuta in tutto il circondario, sempre raggiante e con un’accattivante parlata meneghina, tuttavia emanava un’inconsueta luce dagli occhi che mi infondeva un sinistro candore all’ “Arsenico e vecchi merletti”. Nonostante amassi discorrere con chiunque della vecchia Milano, dopo ogni chiacchierata con lei non potevo fare a meno di provare un sommesso senso di disagio. Ma Lara piaceva a tutti e conclusi che le mie impressioni fossero errate o dettate da una troppo fervida immaginazione.

Un’estate cominciarono ad emergere anomalie che nessuno avrebbe solo lontanamente ipotizzato. Dal loro appartamento iniziò a diffondersi per tutta la scala un puzzo acre e nauseabondo; il caldo soffocante di quei giorni contribuì al propagarsi dei miasmi che presto raggiunsero il pian terreno. Sacchetti pieni di cianfrusaglie riempivano periodicamente il loro pianerottolo per poi svanire come erano apparsi. Gli inquilini si limitarono a lamentosi borbottii perché col giungere dell’inverno l’olezzo si attenuò ma dal giugno successivo tutto fu una fotocopia dell’estate precedente.

Le perplessità si moltiplicarono; dopo un consulto tra condomini, l’amministrazione venne avvisata ma tutto si risolse con un nulla di fatto.

Preoccupato per l’incarnato sempre più ceruleo di Alfredo, proposi di chiamare l’ufficio di igiene ma oltre a sentirmi dire che l’ente non sarebbe mai saltato fuori per un sospetto, fui tacciato di insensibilità nei confronti della coppia: Alfredo e Lara erano benvoluti da tutti e non erano soli al mondo. Pur non avendo figli, avevano ancora molti parenti in città. Se ci fosse stato un problema concreto qualcuno se ne sarebbe accorto; peccato che nessun parente o conoscente fosse mai stato visto mettere piede nel loro appartamento.

Amareggiato e accusato di aver diffuso paure irrazionali, cedetti alla pressione sociale per evitare ulteriori polemiche.

Tutti sembravano tranquilli: gli inquilini tolleravano, l’amministrazione se ne fregava ed io vedevo sempre meno in giro Alfredo. Anche il suo anziano e peloso amico sembrava perplesso.

A ottobre, di quell'uomo invalido se ne persero le tracce.

Serafica e leggera, Lara rispondeva a chiunque chiedesse del marito che la gamba si era aggravata e che non riusciva a camminare. Ricordo che le domandai se non fosse il caso di portarlo da un medico o in ospedale ma con un sorriso di bonaria sufficienza mi rispose che un dottore l’aveva già visitato e che un po’ di riposo era tutto ciò che gli occorreva.

Intanto i sacchetti pieni di stracci sul pianerottolo si stavano moltiplicando e nemmeno la stagione fredda era più in grado di mitigare quelle ripugnanti esalazioni provenienti da dietro la loro porta.

Trascorsero due mesi e Alfredo ancora non si vedeva.

Volevo, anzi no, dovevo assolutamente entrare in quella casa per verificare con i miei occhi. Ne parlai con i miei, con la mia compagna d’allora e con gli altri inquilini; ero disposto a buttare giù la porta e a prendermi una denuncia. L’indignazione che suscitò in tutti la mia proposta fu tale da rasentar l’infamia. Mi diedero del pazzo, del visionario. Qualcuno sostenne che pensavo troppo e male.

Ancora una volta mi arresi a quell'indifferente conformismo; avevo litigato con tutti. Ero stanco.

Quattro giorni dopo la verità emerse. Spietata e autentica, travolse tutti noi e spazzò via per sempre una parte di me.

Una sera, rincasando, Lara si accorse di non avere le chiavi. Suonò il campanello ma nessuno venne ad aprire; rimase sul pianerottolo per circa un’ora, incerta sul da farsi. Infine chiamò i vigli del fuoco per forzare la porta. Quando i pompieri la aprirono rimasero sconvolti: quintali di oggetti, stracci e ciarpame di ogni sorta erano accatastati fino ai soffitti. Ci vollero quasi tre ore e due camionate dell’AMSA per raggiungere la cucina. Alfredo era lì, seduto al tavolo, morto da tre giorni. Uno in meno dalla mia rinuncia ad entrare con la forza.

Forse avrei potuto salvarlo. Forse no. Ormai non ha alcuna importanza. Come non contarono le indagini successive. Nessun valore ebbero le conseguenti speculazioni né la patologia da cui Lara era affetta; nel suo personale delirio non si accorse nemmeno che il marito era deceduto. E ancor meno valsero le sterili parole spese alla ricerca di una spiegazione per tentar di mondare e giustificare le ipocrite coscienze.

Complice un immobile perbenismo, un uomo morì in casa sua nel centro di Milano sommerso da montagne di rifiuti. Questo è quanto.

Da giovane mi fregiavo del mio puerile anticonformismo. Del mio spavaldo menefreghismo nei confronti di tutti quei puzzolenti e fasulli protocolli sociali. Ma non fui dissimile da chiunque altro.

Una sola cosa, ora che ho più di quarant'anni, mi piace pensare ed è in grado di recarmi conforto. Ovunque sia andato Alfredo spero che, una volta giunto a destinazione, “il suo amico” sia corso ad accoglierlo ed insieme si siano fatti una bella passeggiata all'aria aperta.

 

Riccardo Rossetti


 

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