Rugantino, la maschera romana dei primi decenni del 1.800

In un breve quanto intenso soggiorno a Roma di metà gennaio, fra i tre spettacoli teatrali che ho avuto occasione di vedere, quello di "Rugantino" è stato di sicuro il più gradito. Il ritorno di Enrico Montesano come protagonista a distanza di quarant'anni esatti dalla sua prima rappresentazione è stato un successo più che meritato. Naturalmente non solo per la sua notevole presenza scenica ma anche per quella della brava Serena Autieri e per la coppia comica costituita da Edi Angelillo - Eusebia - e Antonello Fassari - Mastro Titta. La versione è quella storica firmata da Pietro Garinei, le scenografie sono quelle di Giulio Coltellacci e le musiche quelle di Armando Trovajoli. Lo spettacolo ebbe la sua prima rappresentazione nel dicembre del 1962, protagonisti Nino Manfredi, Lea Massari, Aldo Fabrizi e Bice Valori. In seguito, Manfredi venne sostituito da Toni Ucci e Lea Massari da Ornella Vanoni. Il testo porta le firme di Garinei, Giovannini, Festa Campanile e Franciosa con la consulenza storica di Gigi Magni. Nel 1978 apparve anche l'omonimo romanzo, a firma dei quattro autori della commedia, sebbene gli autori siano stati più che altro i soli Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa.
Rugantino, chi è? Una maschera romana risalente alla fine del 1700, il nome deriva da "ruganza", che in romanesco significa 'arroganza'. Si tratta di un giovane che passa le sue giornate nell'ozio, frequentando l'osteria di Mastro Titta dove spesso gioca e scommette, perdendo altrettanto spesso fino al tragico epilogo, quando perderà anche la testa perché ghigliottinato dalla sua passata vittima di scherzi Mastro Titta, oste nonché boia papalino. Avrà così il discusso privilegio di essere - la sua - la trecentesima testa tagliata dall'amico che gli procurerà da parte dello Stato pontificio (siamo nel 1830) una gratifica e la possibilità di ottenere il divorzio dalla moglie scappata dal tetto coniugale e potere sposare quindi Eusebia, una burina inurbata che Rugantino ha fatto passare come propria sorella per avere la possibilità di vivere a scrocco a spese del futuro cognato. Al di là della bellezza della commedia musicale e della simpatia talvolta pericolosa come tutte le simpatie suscitate da personaggi dalla battuta all'altezza della situazione e dalla morale alla bassezza della propria coscienza, scesa negli scantinati dove sono ospitati oggetti caduti ormai in disuso, questo lavoro dà l'occasione di meditare sul carattere di una parte del popolo romano. Rugantino non è una maschera antica popolare come quelle di Arlecchino, Pulcinella, Balanzone, e altre; è anzi molto più recente così come le sue musiche, tanto che il compositore Armando Trovajoli raccontò che per rivestire di note i testi delle canzoni a lui sottoposti dovette ispirarsi al ben più antico e collaudato patrimonio musicale napoletano. Ed è strano che la città forse più antica d'Italia abbia una tradizione così recente in campo musicale. Rugantino rappresenta il romano indolente, privo di voglia di lavorare (che al Sud si definisce spesso col verbo "faticare"), voglioso soltanto di gozzovigliare e fare scherzi: talvolta anche crudeli. Caratteristica che lo accomuna agli antichi scherzi narrati dal Boccaccio nel suo Decamerone con spesso protagonisti i personaggi Bruno, Buffalmacco e Calandrino e - in tempi più recenti - agli Amici miei di Leo Benvenuti e Piero De Bernardi. Pietro Garinei, uno degli autori della commedia, ebbe a dichiarare ai tempi: 1998, in cui il personaggio fu interpretato da Valerio Mastandrea che era questi il vero Rugantino. E in effetti la faccia e la parlata indolente, la postura arrogante dell'attore lo classificavano per quella figura. 

Nell'assistere a questo lavoro si rimane colpiti dal fascino della rappresentazione, ma non invece dai tempi descritti, perché quello fu un periodo molto duro per il popolo, per buona parte ignorante, credulone e materialmente povero. Poveri di spirito furono - e sono - coloro che credendo invece di esserne ricchi assillano gli altri con i loro scherzi ridendo alle loro spalle. La povertà evidente che assillò Roma (e non soltanto Roma) fino ai primi anni del Novecento fu bene descritta da Emile Zola nel suo romanzo "Roma", dove parla della miseria che assillava il popolo romano che aveva come contraltare soltanto la mitezza del clima e la bellezza della città in cui la sorte lo aveva fatto nascere ma che: così come la storica città, sperava in una rinascita che riportasse l'una e l'altro a una visibilità e soprattutto a una vivibilità nettamente - perché ripulite - migliori.       

Antonio Mecca

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