TRASFERTA ITALIANA 17

A interrogarci fu il commissario Scalise, che io avevo già avuto modo di conoscere ai tempi dell’EXPO, quando una ragazza di nome Samantha che aveva lavorato come cameriera in un bar dell’area interna alla Fiera era stata brutalmente assassinata. Scalise ascoltò quello che avevo da dire al riguardo, giungendo a interrogare in un inglese raffazzonato anche Stevens nonché l’agente di polizia dell’auto civetta. In quanto al commissario Anselmi era stato ferito gravemente, ma se la sarebbe cavata. Hans era morto. Vania Titova raccontò in un italiano corretto molto più della sua moralità di avere consegnato le carte inerenti i segreti militari riguardanti alcuni nuovi modelli di aerei ad Hans, e infatti queste gli furono trovate addosso e di lì a poco restituite alla fabbrica dalla quale erano state trafugate. Frank Stevens ottenne l’autorizzazione a fare ritorno in America, dove avrebbe provveduto a informare il suo cliente su quello che la sua fidanzata altro non era.

Il giorno successivo al mio ritorno a Los Angeles mi misi in contatto con Arnold, il mio cliente. Ci demmo appuntamento a casa sua, situata nella periferia benestante di Los Angeles, a Pasadena. Ci arrivai in auto verso le quattro pomeridiane, quando il sole cominciava a splendere meno e le persone a boccheggiare al cinquanta per cento. La casa, se tale si può definire un castello che si espandeva più in larghezza che in altezza era un mega villone tutto intonacato di bianco su tutti i suoi tre piani e con il tetto rosseggiante per il colore rosso vino. Il verde relativo alle piante era generosamente e forse incoscientemente dovuto alla gran quantità di acqua utilizzata, che in un Paese come la California del Sud è, oltretutto d’estate, appare sempre uno spreco. Un uomo secco, lungo e allampanato, rivestito di una divisa che pareva classificarlo come capocameriere, o maggiordomo, oppure supervisore degli altri domestici lì impiegati, avanzò verso di me fermandosi a debita distanza, forse per non restare contaminato dall’odore proletario che emanavo.

- Cosa posso fare per lei? – chiese con voce inamidata come la sua camicia.

- Forse avvicinarsi di più a me per sentire meglio – replicai. – Non mordo mica, anche perché i miei denti preferisco piazzarli su carni più pregiate.

Lui assunse un’espressione stupita sulla faccia a sellino di bicicletta, magra e allisciata com’era dal continuo contatto di chi ci si sedeva sopra. 

- Sono atteso da Mr. Arnold. Il mio nome è Stevens. Frank Stevens – precisai alla maniera di “Bond. James Bond”.

- Sì, il signore mi aveva avvisato. Si accomodi, Mr. Stevens.

Lo seguii all’interno dell’edificio, dove una piacevole frescura che non sembrava prodotta dai condizionatori avvolgeva le persone che lì ci vivevano. Dopo un atrio largo e lussuoso, giungemmo in un soggiorno lussuoso e ampio, nel quale poltrone e divani, tavolinetti e mobilia varia infondevano a chi ci viveva una calma e una gradevole atmosfera, e a chi ci veniva per la prima volta una certa inquietudine.

Il domestico mi fece accomodare, arrivando a chiedermi se gradivo qualcosa da bere. 

- Una limonata fresca rappresenterebbe l’ideale – decisi.

Lui annuì con aria di approvazione. Dopodiché si diresse a un bar tutto cristalli molati e legno lucido, aprì le antine e ne tolse una caraffa di cristallo piena per tre quarti di acqua dentro la quale galleggiavano diversi limoni tagliati a metà. Depositò caraffa e bicchiere sul tavolino davanti a me, riempì il bicchiere quasi fino all’orlo e poi me lo porse.

- Vado ad avvisare il signor Arnold del suo arrivo – disse, allontanandosi alla mia sinistra.

Io sollevai il bicchiere vuotandone di colpo la prima metà, e la seconda con più calma. Dopodiché lo riempii nuovamente, prendendo a berne il contenuto con più ragionevole tranquillità.


Antonio Mecca

  

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