TRASFERTA ITALIANA 3

Era stato un viaggio lungo e noioso, durante il quale avevo cercato di dormire il più possibile e di leggere - sempre il più possibile – le pagine di un romanzo poliziesco che avevo già letto più volte ma che ogni volta non mancava di ammaliarmi: “The Long Good-bye”, di Raymond Chandler. La compagnia di Marlowe era per me ogni volta gradevole, e con lui potevo stare certo di non annoiarmi. La mattina precedente, dopo avere salutato il mio cliente avevo telefonato al collega italiano Solmi, sottoponendogli un lavoro da svolgere in tandem, e lui aveva accettato. Mi ero poi recato in banca per versare l'importo: alto, dell'assegno sul deposito basso, del mio conto corrente e quindi recarmi all'agenzia di viaggi per ritirare il biglietto del volo Los Angeles- Milano e prenotato una stanza in un hotel milanese. Rientrato a casa, preparato il bagaglio, a mezzogiorno raggiunto l'aeroporto centrale, nell’enorme parcheggio lasciai l’auto. Il volo era annunciato per le tredici; sarebbe durato la bellezza più che mai dubbia di quindici ore, con arrivo alle dieci del giorno seguente, siccome in Italia erano sei ore indietro rispetto all'America e sessant'anni almeno come Società. Dopo l'atterraggio, il tempo abbastanza lungo per sbrigare le formalità doganali e il ritiro del bagaglio, ecco che finalmente fui libero di approdare nella sala di arrivo. Individuai quasi subito Solmi, al quale sorrisi e strinsi la mano, informandomi su come stesse. 

- Bene, Frank. Fatto buon viaggio?

- Un viaggio in aereo, e così lungo poi, non è per me molto congeniale. Ma non si poteva fare altrimenti. Trascinai il trolley fuori dall'edificio, dove l'azzurro del cielo vinceva su quello del mio bagaglio alla grande. L'auto italiana del mio collega si trovava all'aperto, nel parcheggio a pagamento fronteggiante le entrate e le uscite. La sua macchina era un modello di media grandezza, una Lancia color verde chiaro. Solmi aprì il bagagliaio e vi depositò il mio trolley. Dopodiché salì a bordo dell'auto e aprì anche la portiera che immetteva dal lato del passeggero. Mi accomodai stendendo le gambe per cercare di rilassarmi.

- Stanco? – chiese il collega.

- Scocciato, più che altro. L’aereo stanca perché scoccia.

- Il viaggio è molto lungo, in effetti.

Lasciammo il parcheggio e di lì a poco l'aeroporto, imboccando la strada che portava in città. Pur non essendo esente da traffico, non era neppure lontanamente paragonabile a quello di Los Angeles, e non solo perché assai lontano da lì. Non ero mai stato prima di allora in Italia, e se per questo neppure in altre località d'Europa, per cui impegnai la vista per vedere quello che mi si palesava allo sguardo.

- Dove si trova il tuo albergo? – chiese il collega.

- In un luogo chiamato via Andrea Costa, nei pressi di piazzale Loreto.

- Dove hanno appeso Mussolini e i suoi scherani a testa in giù – commentò lui parlando di Lui. 

Io dissi: - Spero che il sangue che gli sarà sceso al cervello gli sia servito per rinsavirlo. 

- Era già morto quando l'hanno appeso. Mentre invece il Paese era sul punto di rinsavire, finalmente.

Piazzale Loreto era una piazza tanto grande quanto brutta, attorniata com'era da palazzi moderni - perlomeno lo erano al tempo in cui li avevano edificati – e da grattacieli di sicuro funzionali ma ben poco gradevoli alla vista. La via dove il mio hotel si trovava era invece costeggiata da edifici fine Ottocento-inizio Novecento, alti non più di cinque piani. L'hotel si chiamava Excelsior, era un tre stelle provvisto di ingresso a qualche metro dal suolo al quale si accedeva tramite pochi gradini. Li salimmo e approdammo alla reception, sita a sinistra dell’entrata. Un tale in livrea o quasi ci accolse con un sorriso di benvenuto.

- Il signore ha prenotato una stanza qui – lo informò Solmi. – A nome Stevens. Frank Stevens.

L’impiegato consultò un computer per poi confermare:

- Sì, ecco qui. Mister Frank Stevens. Prenotazione per una settimana a partire da oggi.

Confermai la cosa.

- Se può mostrarmi un documento di identità…

Gli porsi il passaporto, che lui aprì e consultò con professionalità. Dopodiché me lo restituì.

- Camera 72, quarto piano. L’ascensore si trova in fondo a destra.

Mi voltai verso Solmi.

- Allora: ci vediamo all'una?

- Va bene. Andremo a pranzo in un buon ristorante nei pressi del Duomo, in quella che voi americani 

  chiamate downtown. A dopo.

Lo salutai e mi diressi all’ascensore.

Antonio Mecca

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