TRASFERTA ITALIANA 5

Iniziai il mio turno, come prestabilito, alle sette del mattino, rilevando il posto occupato da Solmi. Il tassista mi lasciò vicino all'auto del mio collega, che sedeva dietro al volante.

- Novità? – gli chiesi.

- Non è più uscita. Tu hai avuto modo di riposare?

- Sì. Prima ho fatto una passeggiata lungo corso Buenos Aires, che è davvero un bel viale, e ho quindi mangiato una pizza in un locale di una via trasversale. Poi ho fatto ritorno in hotel, e dopo una doccia tonificante ho abbracciato cuscino e lenzuola in mancanza di meglio consegnandomi alle cure di Morfeo. Ho fatto un sonno unico, e ora eccomi qui, pronto a entrare in azione.

- Mentre io ad andarmene a casa, a dormire. Ci vediamo intorno alle sette di stasera. Se nel frattempo succede qualcosa, non mancare di avvisarmi.

Ci salutammo; io andai ad occupare il posto da lui lasciato vacante dietro al volante. 

Fare un appostamento è cosa che sarà anche buona e giusta, nel nostro lavoro, ma non altrettanto sacra come nella preghiera omonima. Per cui passai il tempo leggendo gli ultimi capitoli di “The long Good-by”, e recandomi a orinare quando ne sentivo il bisogno. Vania uscì poco prima di mezzogiorno, salendo a bordo di una piccola auto. La seguii con discrezione, avendo cura di frapporre fra lei e me un’altra auto. Attraversammo piazza Udine e percorremmo poi via Casoretto, che portava in piazzale Loreto. Poi imboccammo il corso Buenos Aires, percorrendolo tutto fino a un incrocio attraversato il quale si trovava corso Venezia. Fu qui che la ragazza fermò l’auto, parcheggiandola in un posteggio a pagamento. E fu qui che raggiunto a piedi un ristorante vi entrò. Parcheggiai a mia volta in un posteggio vicino per poi fare il mio ingresso un cinque minuti dopo che la ragazza era entrata.

La sala, non molto ampia, era arredata in stile rustico, riproducendo l'interno di una di quelle osterie in voga cento anni prima. Tavolini ricoperti con tovaglie a scacchi bianchi e rossi, pareti di legno scuro comprendenti quadri riproducenti scorci di natura, pavimenti in mattoni color rosso pompeiano come il riverbero del Vesuvio in eruzione, soffitto di legno come le pareti ma chiaro. La ragazza, Vania, sedeva sola, davanti a sé un bicchiere di acqua minerale. Notai che il posto a lei di fronte non era stato liberato di bicchieri, posate e tovagliolo. Evidentemente doveva essere in attesa di qualcuno. Una cameriera mi si avvicinò, sorridendo invitante. Mi elencò alcune delle pietanze che avrebbero potuto interessarmi e delle quali compresi solo in parte il significato. Poi quando ebbe capito che ero straniero si decise a porgermi un menu con le scritte in inglese, così che potei individuare il piatto a me più gradito: una spaghettata al pomodoro e basilico, accompagnata da un calice di vino rosso. Nel frattempo la ragazza da me seguita aveva attaccato una pizza ai frutti di mare, della quale si cibava con placida lentezza. Poi la porta del locale si aprì e un uomo fece la sua apparizione, andando direttamente al tavolo di Vania, dove sedette frontalmente alla ragazza.

Lo osservai con attenzione.Un uomo ancora giovane; dimostrava non più di quarant’anni. Era attraente, bei lineamenti facciali posti sopra un fisico di buone proporzioni. Vestiva bene, in maniera informale come si usa al giorno d'oggi, con giubbotto in pelle e pantaloni di stoffa marrone. Ai piedi mocassini marroni anch'essi, di lucida pelle. Trovandomi a due soli tavolini di distanza speravo di riuscire a cogliere qualcuna delle parole che i due si sarebbero scambiate. Mi riuscì innanzitutto di sentire la lingua che parlavano: russo chiaramente, ma non altrettanto chiaro mi era il significato. 

Scattai con cautela alcune foto con lo smartphone, fingendo di stare digitando un numero telefonico. 

L’uomo ordinò a sua volta una pizza, in un italiano dall'accento sovietico così intenso che pareva di vedere materializzata la vecchia bandiera con falce e martello. Io pagai il conto con la carta di credito e uscii. 

 

Antonio Mecca

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