TRASFERTA ITALIANA 8
- 10 dicembre 2021 Cultura

- Prosegua ancora per qualche metro –
raccomandai al mio autista – e poi si fermi. Lui eseguì. Io pagai la corsa e
scesi.
Tornai indietro di qualche metro fino a raggiungere l'imbocco
della via dalla quale stava uscendo il taxi che avevamo seguito poco prima, e
che svoltò a sinistra per tornare in centro città.
A duecento metri di distanza campeggiava l'insegna dell'hotel “Parigi”.
Sembrava un edificio modesto, ma pur sempre di tre stelle. Entrai. Alla
reception si trovava solo l’impiegato.
- Buongiorno – salutai nel mio italiano stentoreo. – Vorrei una
camera per tre giorni, ne avete una singola ancora disponibile?
- Sì, certo. Può favorirmi un documento…
Gli porsi il passaporto e lui ne scorse nome e dati. Quindi me
lo restituì. Non fece commenti sul fatto che non avessi con me un bagaglio; del
resto non era cosa che lo riguardasse. Poi mi consegnò la chiave numero
diciannove.
- Camera diciannove, secondo piano, - disse. L’ascensore è alla
sua destra.
Lo ringraziai e mi diressi dove mi aveva indicato. La targa con
i led luminosi color verde mela acerba metteva in risalto il numero tre.
Premetti il pulsante “T” di terra e aspettai che la cabina arrivasse a
destinazione. Una volta al suo interno premetti il tasto “Tre” e quando giunsi
al piano selezionato uscii, percorsi lentamente il corridoio, accostando la mia
fulgida figura alle porte delle camere presenti e allungando l’orecchio come il
signor Thorson all’inizio dell’ottavo romanzo con Marlowe. E fui fortunato,
poiché nel procedere lungo il corridoio mi pervenne all’udito una voce
femminile che si esprimeva in lingua russa.
Mi fermai, per capire da quale stanza provenisse, era la numero
34. Siccome non capivo la lingua, mi allontanai dalla porta per allungare il
passo non appena la voce si interruppe. E bene feci, poiché la porta si aprì di
lì a poco mentre svoltavo l'angolo del corridoio e così la intravidi dirigersi
verso l’ascensore.
Aspettai qualche minuto, dopodiché feci ritorno alla porta 34.
Tentai la maniglia, ma la porta rimase chiusa. Allora cavai di tasca un pass
partout e iniziai a muoverlo nella serratura, con un orecchio rivolto lì e
l'altro alla tromba della scala e all'ascensore. Quindi dalla serratura mi
arrivò il segnale di via libera: la porta si era socchiusa. Meno male che si
trattava di una serratura vecchio stile, altrimenti non mi sarebbe stato
possibile forzarla.
La stanza era di medie dimensioni, ancora intonsa. Vania non
aveva disfatto il bagaglio, che si trovava posato sul letto. Oltre al
giaciglio: a due piazze, erano presenti due comodini, un cassettone con
specchiera e un armadio con specchio al centro, tutte cose che generalmente ci
si aspetta di trovare in una camera d'albergo. A sinistra dell'ingresso la
porta che immetteva nel bagno, questo sì meno intonso perché la donna lo aveva
utilizzato per rinfrescarsi e rinfrancarsi e probabilmente pettinarsi, come
stavano a testimoniare alcuni capelli neri che ancora si trovavano nel
lavabo.
Tornai nella stanza. Il bagaglio era semiaperto: probabilmente
Vania vi aveva attinto la borsetta della toilette. Io ne perquisii con metodo
l'interno, scostandone gli abiti con delicatezza. Fra questi ebbi modo di
notare una gonna molto corta e una camicetta di seta, nera come la gonna. Sotto
l'abito si trovavano un paio di scarpe anch'esse nere, provviste di tacco a
spillo talmente lungo che avrebbero potuto se utilizzati come spille ferma
banconote arrivare a trafiggerne un robusto mazzo composto di centinaia di
biglietti.
Tolsi di tasca lo smartphone e scattai diverse foto del vestito
e delle scarpe, dopodiché realizzai anche un filmato della stanza informando a
voce Solmi al quale il tutto era indirizzato: che Vania si trovava nella stanza
numero 34, al terzo piano dell'hotel Parigi, mentre io ero al secondo: alla
numero diciannove.
Quindi gli inviai il materiale. Poi rimisi a posto le scarpe e
il vestito, lasciai il bagaglio così come lo avevo trovato e cautamente
abbandonai la stanza.
Antonio Mecca