IL RISORGERE DEL MALE 18

Il giorno successivo tornai alla fabbrica Walkermann in mattinata, verso le otto, quando il turno di giorno aveva inizio. George giunse un’ora dopo, sempre a bordo del suo panfilo azzurro e sempre solo. Varcò i cancelli e non si rivide più fino a mezzogiorno, quando uscì per tornare nuovamente in città. Gli tenni dietro con la microspia innestata. Lo vidi attivare il viva voce che si trovava sul cruscotto. Meglio così, perché in questo modo avevo la possibilità di poter ascoltare la voce del suo interlocutore. 
- Sì? - La voce di Walkermann. 
- Ciao George. Sto dirigendomi da Henry. Sono da poco uscito dalla fabbrica. 
- Perfetto. Ti chiamavo per avere la conferma per dopodomani. 
- Certamente: nulla è cambiato. Ci vediamo al raduno intorno alle nove. 
- Benissimo. A dopodomani. 
- A dopodomani. Riattaccò. 
Altre telefonate non ne giunsero, nei restanti venti minuti in cui Walkermann proseguì il viaggio in auto. Eravamo giunti in centro, sulla Main Street affiancata da robusti palazzoni alcuni dei quali risalenti alla fine dell’Ottocento. Fu proprio accanto a uno di questi che si accostò. Notai che si trattava di un ristorante: “Da Henry”. George Walkermann affidò l’auto al guardamacchine ed entrò. Io proseguii fino a trovare un posteggio a pagamento. 
Prima di uscire dall’auto mi piazzai un paio di baffi finti e un paio di occhiali con lenti neutre. Dopodiché tornai indietro diretto al ristorante. Il locale prometteva di essere un posto di lusso, con arredo sfarzoso e camerieri in stile Ottocento come l’edificio dentro il quale lavoravano. Calcolai mentalmente quanto denaro doveva trovarsi nel mio portafoglio. Sperai fosse sufficiente, perché carte di credito non ne avevo mai avute. L’unico credito che mi interessava avere era quello che i miei clienti nutrivano nei miei confronti, visto che erano loro a nutrire me. Così varcai a mia volta la soglia salutato da un sorriso di benvenuto del portiere. Tutto l’arredo gridava Ottocento, dalle piastrelle di ceramica antica poste sul pavimento al soffitto arabescato in oro, dalle pareti tappezzate di broccato rosso con venature in argento ai mobili che in apparenza parevano provenire dal secolo di Lincoln e di Edison, di Washington e di Buffalo Bill. Fu come viaggiare con la macchina del tempo. Della ventina di tavoli presenti, solo una metà era occupata. Individuai Walkermann in fondo alla sala, seduto a un tavolo in compagnia di tre persone. Il maitre venne ad accogliermi con uno sguardo che contraddiceva il sorriso dipinto sul grugno, cortese e invitante come un'insegna luminosa posta sotto due finestre pericolanti. Nel suo caso, gli occhi duri incrinati da una sorta di disprezzo malcelato nei miei confronti. Il suo sguardo disapprovava il mio vestiario, forse perché non ero rivestito da capo a piedi dalle grandi firme. I clienti con cui l’amico era abituato a trattare erano ricoperti di abiti firmati di sarti facoltosi poste in calce ad assegni dalle cifre cospicue, e poi da gioiellieri e dentisti e parrucchieri facoltosi quasi quanto loro. E quanto l’oro che vendevano a caro prezzo. Avrei voluto avvicinarmi il più possibile al tavolo di George, ma il servo di rango che mi accompagnava mi sistemò a un tavolo distante dal suo diversi metri. Pazienza. Avevo buona vista, e pur non potendo leggere sulle loro labbra perché non conoscevo la tecnica adottata dai sordi, potevo tenerli d'occhio. 
Ordinai un Martini con olive e feci finta di scrutare il menù. 
Arrivò il mio aperitivo, consegnatomi con un surplus di cerimonie che l’alto rango del locale evidentemente richiedeva. Mentre sorseggiavo la bevanda, osservai il gruppetto che teneva compagnia all’industriale. Era costituito da tre uomini, ben vestiti e ben pasciuti. L’età variava dai quaranta ai cinquant’anni. In particolare la mia attenzione fu attirata da un individuo alto e magro la cui faccia sembrava ricordarmi qualcuno. A un certo punto l’uomo si alzò e si diresse in fondo alla sala, verso una porta con la scritta “Toilet”. Di lì a poco mi alzai a mia volta e lo seguii. I bagni erano all’altezza del resto del locale. Lavandini di un bianco accecante con dei rubinetti dorati sovrastati da specchi lustrati all’interno di cornici altrettanto dorate. Le porte nelle toilettes erano sei: tre per gli uomini e tre per le donne. Solo una era occupata. Entrai in quella accanto silenziosamente così come ero entrato nel bagno, richiusi la porta e ascoltai. Parlava al telefono, in una lingua straniera. Una lingua slava. “Gracida”, fu la prima parola da lui detta che mi riuscì di comprendere, seguita e preceduta da altre il cui significato rimase per me ostico. Andò avanti così per alcuni minuti e fra le altre parole che disse ne compresi soltanto due: Newtown e Adolph. Poi chiuse la comunicazione e uscì dal gabinetto. Si lavò le mani a uno dei lavandini e fu lì che riuscii a osservarlo bene dallo spiraglio della porta che avevo lasciato socchiusa. Aveva gli stessi lineamenti della sorella, sembrava solo un po’ più giovane di lei e di molto più feroce. Mi chiesi quale ruolo avesse in quella storia, ma la risposta che potevo darmi non era difficile da immaginare. Dopo che fu uscito aspettai un paio di minuti, dopodiché lasciai a mia volta i bagni. Tornai al mio tavolo, dove di lì a poco fui raggiunto dal maitre che mi chiese cosa intendessi ordinare. Aprii il menù a caso e ordinai il nome della prima pietanza che mi capitò sotto gli occhi. Dopo averla ordinata, diedi un’occhiata al prezzo: centocinque dollari! Avevo fatto bingo. Siccome il lacchè mi stava sottoponendo una lista di vini dagli altisonanti nomi francesi, tagliai corto ordinando una birra americana: la Miller. Quello arricciò il delicato e schizzinoso nasino ma non obiettò, limitandosi a portar via il bicchiere vuoto di Martini. 
Al tavolo dei quattro di mia conoscenza: più che altro, due soli di loro, si parlava e si mangiava. Nessuno fra essi gettò uno sguardo nella mia direzione, e io mi limitai a mangiare la pietanza che il pinguino in livrea mi aveva portato: anatra all’arancia con contorno di uvetta che pareva la serie di pallini che l’avevano impiombata e di patate al pomodoro che sembravano pepite d’oro rosse. Terminato di mangiare e di bere, pagai il conto guardandomi bene dal rilasciare una benché minima mancia. Quindi uscii dal locale facendo ritorno alla mia auto.
Antonio Mecca