IL RISORGERE DEL MALE 21

Passai buona parte del giorno dopo a girare per la cittadella che del romanzo di Cronin condivideva ben poco, sebbene pure questa avesse in comune con quella le nuvole. Nel romanzo queste talvolta somigliavano a una cittadella ideale e idealizzata, pura come il biancore cotonato che le componeva. Qui invece il falsume era evidente a ogni metro di strada. Si era cercato, nelle ipocrite intenzioni di chi l’aveva ideata, di concretizzare il sogno fiabesco dei fumetti. Ma il sogno per essere tale deve rimanere allo stato di fumetto. Uno stato il cui territorio è governato dalla fantasia. Altrimenti, perde l’aura di magia che da sempre lo contraddistingue. I residenti per buona parte lavoravano nella capitale o al di fuori della cerchia abitata. Cerchia. Il significato originario del termine Klux. Quelli che lavoravano lì erano gli esercenti: ristoratori, edicolanti, negozianti vari. L’allegria da luogo di vacanza mi pareva fasulla e fuori luogo come una ilare maschera di carnevale ricoprente il volto di un cadavere. Girando qua e là e parlando qui e lì avevo appreso maggiori ragguagli riguardanti il comizio che quella sera alle nove si sarebbe svolto nell’auditorium. Le mie fonti principali non erano state quelle della giovinezza bensì della vecchiaia, visto che i vecchi sono da sempre quelli più disposti a parlare e a lasciarsi andare alle confidenze. C’era un giardino pubblico, in città, un giardino anche bello, pieno di verde, di piante in fiore, di un laghetto artificiale come il giardino che lo ospitava e la città nella quale entrambi erano incastonati, in una sorta di scatola cinese con sorprese a incastro. Varie panchine in legno dipinto di azzurro come un cielo di primavera che ospiti nuvole candide accoglieva invece anziani la cui vecchiaia li rendeva spesso, seppur non sempre, candidi come bambini. In quel cielo terrestre con nuvole terra-terra, il colpo di fulmine poteva ancora scoccare, ma la sua forza non era più tale da folgorare e incenerire chi ne veniva colpito. Parlai con diversi di loro, in genere erano uomini soli in compagnia tutt’al più dei loro cani o dei loro giornali, alcuni dei quali non erano il “Sunrise”. Mi informai su come si svolgeva la vita in città, su quello che Walkermann rappresentava per essa, sulla manifestazione in programma per quella sera. 
- Io non ci andrò - disse un lettore del “New York Times”.
- Non amo quel genere di raduni. E, a dire il vero, neppure questo genere di città. Non ci volevo venire qui, non mi ci volevo trasferire, ma da quando sono rimasto vedovo è stata mia figlia a insistere affinché ci venissi. E così ho venduto la casa che avevo a Monroeville e mi sono trasferito qui, ad aspettare la Signora di Nero vestita. E francamente spero che non si faccia attendere ancora per molto, come quasi tutte le signore. 
Non cercai di tirarlo su con fesserie del tipo: “Non parli così, che la vita è bella e lei non dimostra assolutamente l’età che ha, la quale non si vede proprio”. Ma si sentiva, però; per cui gli diedi ragione. 
- Cosa sa dirmi su George Walkermann? A momenti sputò, non solo saliva ma anche la dentiera. 
- Ci sarebbe molto da dire, ma poco da ascoltare. Dopo un po’ che parlo di lui, a me viene la nausea. Walkermann è uno sporco razzista, un nazista che l’odio razziale ce l’ha nel DNA, viste le sue origini. Infatti è tedesco e figlio di un farabutto delle SS, quindi doppiamente figlio di puttana. Purtroppo è anche ricco e influente, e sta cercando adepti per la sua crociata contro gli ebrei, i neri e i comunisti. Forse ci crede anche in quello che dice. Ma quello che afferma è assurdo e pericoloso, perché criminale. Questo è il Paese della libertà, caro signore, dove ognuno può dire e fare ciò che vuole. Così, anche un pazzo pericoloso come Walkermann si può permettere di fomentare l’odio razziale senza rischiare granché. Naturalmente è tenuto d’occhio, di sicuro l’FBI ha messo qualche infiltrato fra chi lo frequenta, ma io che sono purtroppo sufficientemente vecchio da avere vissuto l’era Hoover con tutte le sue nefandezze, non mi fido dei federali. Quel bastardo di J. Edgar ha fatto più male che bene all’America, evitando di combattere Cosa Nostra e puntando i suoi sforzi solo su gangsters di piccolo cabotaggio, non meno pericolosi di quelli della mafia ma di certo non altrettanto dannosi alla Nazione. Adesso che lui non c’è più naturalmente le cose sono migliorate, ma il seme avvelenato da lui piantato ha proliferato a sufficienza da far nascere molte male piante. Per loro, l’ossessione principale resta quella di un comunismo che qui da noi non ha mai attecchito veramente, poi della popolazione nera che generalmente non occupa alcun posto di potere, e infine gli ebrei che del potere prediligono solo quello commerciale dato dalle industrie. Se avessi qualche anno di meno come anagrafe e qualche anno di più ancora da vivere farei la valigia e me ne andrei. Purtroppo l’età e le malattie me lo impediscono, per cui non resta altro che rassegnarmi. Gli sorrisi con simpatia. 
- Che lavoro faceva, prima della pensione? 
- Ero giornalista free-lance. Ho lavorato per diversi giornali, che in comune fra loro possedevano la scarsa disponibilità economica. Ma la passione era tanta, amico, e io dovevo continuare. A continuare non è stato il mio matrimonio, però, poiché mia moglie: stanca di ricevere uno stipendio insufficiente per andare avanti, a un certo momento mi ha lasciato per un altro. Ha avuto ragione a farlo, visto che ha passato una vita da semi-indigente. Pazienza: non tutti possono farcela. 
- L’importante è tentare - dissi. 
- Non tutti quelli che rimangono nell’ombra sono necessariamente dei mediocri. Così come non tutti quelli che riescono sono necessariamente dei geni. Se lei non avesse perseverato, il rimpianto se lo sarebbe portato dietro fino al termine dei suoi giorni. 
- Già; forse è così. Come forse ci si dovrebbe porre un limite nella vita: andare avanti fino a un certo punto per poi, se non si è ottenuto ciò che si desiderava ottenere, svoltare strada. Annuii, senza aggiungere altro. Dopodiché ci stringemmo la mano e mi accomiatai.
Antonio Mecca