Giovanni Raboni

Alberto Pellegatta è nato nel 1978. Vive a Milano.
Alberto Pellegatta è nato nel 1978. Vive a Milano.

Di Alberto Pellegatta

Per comprendere la visione tutta umana del divino, come la ritroviamo nell’opera del grande poeta milanese Giovanni Raboni, possiamo riferirci alla pittura, risalendo fino al Magnasco e, prima ancora, a quel clima di controriforma lombarda influenzata a Brescia dal Moretto e a Bergamo dal Moroni. Lo spazio della scena abbandona le prospettive rinascimentali e lascia che sia il gesto umano a delimitare i luoghi, gli spazi abbandonati e disadorni, i depositi, i cunicoli. Le classi morte (come in Kantor) rappresentano l’agonia dello spazio, sono archetipi corali in cui trovano un contrappunto le vicende più intime.
Gesta Romanorum si appropria della tradizione evangelica per trasfigurarla, per restituire una divinità assolutamente fisica, colta per dettagli, a pezzi: una fede che è «pietra o coltello», un battesimo che diventa «violento scorpione». La notte è misurabile («l’ambiguo/lume di luna che confonde/il protocollo dei marmi») e i morti-reporter, protagonisti del primo libro, ritornano a intermittenza. Quei borghesi trapassati che vedono passare il mondo in mano ai parvenu: «Se penso a chi è la gente ricca adesso, a cosa/gli costa il capitale,/mi convinco che tutto si complica, anche il male». Senza mai diventare astratto, o concettuale, ci parla delle case umide sui navigli, chiedendosi se abbatterle servirà a qualcosa, perché il male - nero nucleo del mondo - «non è mai nelle cose». Il paesaggio è quello di una città complessa e stratificata, fatta di ere sovrapposte che riaffiorano improvvisamente, e che è la Milano manzoniana degli untori quanto quella popolare dei navigli del dopoguerra - come nei pittori di quegli anni, nei panorami in movimento di Sironi, nei grandangolari sui tetti di Banchieri o negli interni del coetaneo Giancarlo Ossola. Le prose di Economia della paura - preziosa raccolta poi inclusa in Cadenza d’inganno - rientrano nel thriller: oggetti che si spostano e che, se anche domestici, perdono il loro potere rassicurante, consolatorio, per diventare sconci, deformi. Una metamorfosi giustificata, come in Bacon, dall’idea di riportare la realtà a essere «meglio del vero», perché niente sia sogno, e niente sia veramente veglia.

Proponiamo un testo esemplare e milanessimo, dalla prima raccolta di Raboni, Le case della Vetra.

RISANAMENTO
Di tutto questo
non c’è più niente (o forse qualcosa
s’indovina, c’è ancora qualche strada
acciottolata a mezzo, un’osteria).
Qui, diceva mio padre, conveniva
venirci col coltello… Eh sì, il Naviglio
è a due passi, la nebbia era più forte
prima che lo coprissero…  Ma quello
che hanno fatto, distruggere le case,
distruggere quartieri, qui e altrove,
a cosa serve? Il male non era
lì dentro, nelle scale, nei cortili,
nei ballatoi, lì semmai c’era umido
da prendersi un malanno. Se mio padre
fosse vivo, chiederei anche a lui: ti sembra
che serva? È il modo? A me sembra che il male
non è mai nelle cose, gli direi.

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