BARBER SHOP

Il salone era di quelli in legno antico, ricco di specchi dalle cornici dorate e modanature in legno scuro, di mobili provenienti da epoche ormai lontane nel tempo e nel ricordo di chi le aveva vissute. Ben si sposavano con l'enorme lampadario dorato al quale facevano per così dire la guardia due altrettanto enormi ventilatori in legno chiaro, fino a primavera inoltrata fermi e simili, nella loro immobilità, ad eliche di battelli arenatisi da tempo. Frank Torrisi amava quel locale, che gli ricordava - sebbene in grande - il salone da barbiere del suo paese natio, nel quale da bambino andava a farsi accorciare i lunghi capelli ribelli.
Era povero, quel vecchio locale, come povero era il paese che lo ospitava e che aveva dato i natali a lui, povero anche lui come la quasi totalità dei suoi compaesani. Per questo era emigrato, attraversando l'oceano e approdando in un grande Paese dalle illimitate opportunità per chi era provvisto di intelligenza, volontà e onestà ma non per chi come lui era già segnato dalle stimmate della violenza. Ne erano passati di anni, da allora; Frank era cresciuto in età e in considerazione, in potere e in ricchezza. Ma i ricordi di allora erano rimasti sempre lì, dentro di lui. Tornavano in superficie al momento giusto, quando la violenza o la smodata allegria di circostanza lo caratterizzavano per quello che mai aveva cessato di essere: un bastardo cafone trasudante violenza da ogni poro artificialmente profumato con aromi di classe che però una classe che a lui mai sarebbe stato possibile far avere.
Seduto sulla vecchia e comoda poltrona in pelle, Torrisi ascoltava o fingeva di ascoltare il barbiere che volteggiandogli attorno come una falena resa ubriaca da una grande luce il cliente rappresentava per lui e per quelli come lui, gli parlava  sorridendogli untuosamente. A ben ripensarci, Torrisi non si ricordava di averlo mai visto così. Forse aveva lavorato troppo, quel giorno; o forse, più semplicemente, era lui a renderlo nervoso. Gettò attraverso lo specchio uno sguardo a Johnny, la sua guardia del corpo, seduta su una delle sedie riservate alla clientela appoggiate lungo la parete. Il salone era deserto come doveva esserlo quando Frank annunciava una sua visita. Johnny portava dipinta sulla giovane e già coriacea faccia tutta la violenza compressa, come compresso era il suo fisico da lottatore strizzato nei vestiti di ottimo taglio che il suo boss esigeva per la propria personale guardia pretoriana. Fuori dall'ingresso l'altro suo angelo custode stava di guardia in strada, a poca distanza dalla Cadillac dorata ferma accanto al marciapiede e con un altro ceffo DOC dietro al volante.
Il marciapiede aveva partorito la gente come loro e l'aveva immessa nel gran mondo dell'Organizzazione. Ma era sempre presente nella loro esistenza, calamita - e calamità - troppo potente per poterne dimenticare gli effluvi maleodoranti ma anche eccitanti che da sempre ospita.
Frank Torrisi amava il salone da barbiere per quella sensazione di piacevole rilassatezza che riusciva a infondergli. La radio in sottofondo dispensatrice di buona musica intervallata da chiacchiere altrettanto rilassanti e inoffensive. L'odore di pulita freschezza emanato dalle varie acque di colonia allineate sugli scaffali in flaconi multicolori, la cui forma ricordava i pesi delle bilance di un tempo, quando il mercante con la sua destrezza riusciva a fregarti sul peso effettivo quasi sempre. Mentre in questo caso era il sentimentalismo d'accatto provocato dagli oggetti, dalla bellezza delle cose passate.
Seduto su quella poltrona, circondato e avvolto da quella nube profumata mentre il barbiere gli accorciava i capelli, gli parlava di tanto in tanto sovrapponendo la sua voce untuosa a quella pulita della musica proveniente dalla radio, Torrisi si sentiva viaggiare esattamente come gli capitava da ragazzo, nella misera ma piacevole bottega di barbiere del paese. E se allora il tutto lo induceva a sognare indistintamente, ora il tutto lo induceva a rievocare distintamente il suo passato.
Era giunto il momento di farsi radere la barba. Il barbiere mise una salvietta a scaldare sul calorifero, poi la prese e la posò delicatamente sulle guance del suo cliente. Il quale non notò - come non lo aveva notato Johnny - il gesto che l'uomo aveva compiuto all'interno del cassetto nel prendere il panno. E cioè, premere il pulsante lì nascosto. Questo serviva ad escludere il campanello sullo stipite della porta e, al tempo stesso, a spegnere l'insegna esterna. Che era poi quella che i due sicari all'angolo opposto della strada tenevano d'occhio già da tempo. La salvietta appoggiata a coprire il viso lasciava scoperta soltanto la parte inferiore del naso, e vi sarebbe rimasta ad ammorbidire gli ispidi peli delle guance per una ventina di secondi almeno. L'uomo di guardia all'ingresso li notò, e capì. Ma due colpi di pistola munita di silenziatore lo fecero accasciare sul marciapiede, silenziosamente afflosciandosi come una fisarmonica dal mantice squarciato. All'autista della Cadillac pensarono altri, con la stessa spietata efficienza. La porta del salone si aprì, silenziosa come lo scuotere dell'ala di un angelo. L'angelo della morte. Johnny sollevò lo sguardo in quella direzione, in tempo per vedere far fuoco su di lui. Sotto la salvietta calda, simile a una porzione di sudario anticipatrice della cerimonia funebre prossima a venire, Torrisi non riuscì a comprendere subito ciò che stava succedendo. Lo capì solo quando con movimento brusco e deciso il barbiere fece girare la sua poltrona in direzione dell'ingresso. Cercò allora di strapparsi il telo dalla faccia, ma acute punture di spillo gli si conficcarono nel volto al pari di aghi su di un cuscinetto appunta spilli, cucendogli quel telo funebre a mo' di maschera mortuaria. I sicari lasciarono il posto, seguiti dal barbiere loro complice. E il salone con la sua musica di sottofondo così anacronistica nella sua sdolcinata serenità, mescolata all'odore dei profumi aleggiante nell'aria furono la musica di accompagnamento e l'incenso particolari della pre -cerimonia funebre a cui Frank Torrisi ebbe diritto. L'unico diritto che un individuo come lui privo di doveri poteva permettersi di accampare. 


Antonio Mecca

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