VIOLA-UNA STORIA MILANESE DOLCE, AMARA

Viola (nome di fantasia) è una ragazza dell’est Europa sui venticinque anni ma così minuta e delicata da dimostrarne dieci di meno.

Quando la incontrai per la prima volta, qualche anno addietro, la trafila fu la solita che tanti milanesi quotidianamente sopportano:
"Signore, sono sola con una figlia piccola, non avrebbe qualcosa da darmi?”

Solo per levarmela dai piedi le diedi i pochi spiccioli che avevo in tasca: la ragazza mi ringraziò ma prima di andarsene volle sapere il mio nome.

Trascorsero un paio di settimane e, una mattina, passeggiando per la strada con il naso infilato in un quotidiano, sentii chiamarmi con un filo di voce; mi voltai e vidi Viola che mi sorrideva.

La mia espressione a quel punto dovette valere più di mille parole perché la ragazza si affrettò a replicare che non desiderava nulla; mi aveva visto e voleva solo salutarmi. Entusiasta, mi raccontò di aver trovato occupazione come badante presso una buona famiglia nel centro di Milano:
“Ora potrò pagare i libri di scuola per mia figlia!”

In questa società sintetica, fatta di bisogni e desideri indotti, riscoprii per un attimo il senso della realtà e di una gioia autentica.

Da allora Viola accudì molti nostri anziani e pulì molti appartamenti della Milano che sta bene.

Quella ragazzina volenterosa e sorridente si adattò a far di tutto pur di garantire un’istruzione a sua figlia e in un’occasione me la presentò: una bambina paffuta dagli occhi grandi, tersi d’azzurro che con orgoglio mi mostrò di aver terminato tutti i compiti per l’indomani. Pensai subito che Viola non doveva essere molto più grande di sua figlia quando divenne madre.

Da allora ci incrociammo molte altre volte; in un bar, in un paio d'occasioni, aiutai anche la piccola a finire i suoi compiti.

Sono un orso con tendenze misantrope: tutte le mie vecchie compagne potrebbero confermarlo. Ma quel breve periodo di surrogata, sempre a tempo determinato, e platonica vita famigliare lo rammento tutt’ora con gioia.

Stranamente ma, dal mio punto di vista fastidiosamente, Viola cominciò a domandarmi da un certo momento se fossi sposato: ogni volta che ci si salutava, mi poneva sempre la stessa domanda e ogni volta rimaneva stupita nell'apprendere che non lo fossi.

Il sabato mattina ero solito rilassarmi con un tè caldo e un libro in una caffetteria: uno dei miei sacri momenti di beata solitudo.

Quando un sabato vidi Viola entrare, avvicinarsi e sedersi al mio tavolo, capii subito che mi aveva pedinato e il suo bel visino sorridente quella volta servì a ben poco.

Non alzai la voce e non le mancai di rispetto ma riuscii a essere glacialmente sgradevole come purtroppo solo io sono in grado.

La ragazza si alzò senza dire una parola e uscì dal locale mentre io ripresi incazzato la lettura del mio libro. Dopo circa una mezzora andai alla cassa ma mi dissero che il tè era già stato pagato.

Non serve aggiungere che i sensi di colpa mi sarebbero comunque venuti e quel gesto rincarò ulteriormente la dose.

Quando circa un mese fa l’ho rivista, era trascorso quasi un anno: Viola mi si è fatta incontro con la sua consueta grazia, come se niente fosse successo, mentre io, impacciato per la mia precedente maleducazione, ho cominciato a farfugliare improbabili frasi di circostanza. Passati dieci minuti, mi ha informato che a breve sarebbe rientrata nel suo paese perché a Milano si erano verificati problemi sul lavoro.

Si era già allontanata, accomiatandosi bruscamente ma la sua espressione nel riferirmi di quei generici problemi mi aveva turbato. L’ho pregata di rimanere ancora un momento per spiegarmi l’accaduto.

Con sguardo impietrito e bocca privata del verbo ho ascoltato ciò che non avrei mai voluto udire. Nel suo peregrinare di abitazione in abitazione, le erano capitate, in ben più di un’occasione, richieste di attenzioni particolari da parte di alcuni mariti; stimati professionisti e padri di famiglia. Forse stava esagerando, forse gli uomini sono assai più ignobili di ciò che nella mia ingenuità ho sempre creduto, forse si era venduta per poter racimolare qualche spicciolo in più. Oramai non importava: era spossata, scoraggiata e desiderava solo tornarsene a casa. Con occhi lucidi, ha aggiunto infine che il suo stupore nei miei confronti e le sue insistenti domande sul mio stato civile, derivavano dal fatto che un uomo della mia età, con relazioni saltuarie, si fosse sempre dimostrato gentile nei suoi confronti senza mai domandarle nulla in cambio.

Viola mi ha sorriso un’ultima volta, mi ha ringraziato, ha stretto la mia mano tra le sue piccole dita e se n’è andata.

Io sono rimasto lì. Con un’espressione interdetta divisa tra il disprezzo per me stesso e il disgusto per i miei concittadini.

Non saprò mai se stesse cercando pragmaticamente di sistemarsi o si fosse innamorata di me. Pur essendo madre, l’ho sempre vista e considerata come una bambina sola, lontana da casa, arrivata per necessità in una grande e troppo spesso crudele città, che tenta di nascondere la polvere sotto il tappeto dell’ambiguità. Una nobile polvere fatta di persone con storie e vite, sempre e comunque, degne di essere ricordate e raccontante. Capaci di un’umanità, di un’empatia e di un tale sincero altruismo, da farmi vergognare dei miei ridicoli problemi.

È la Milano degli ultimi, descritta dal Valera e dalla Scapigliatura. La Milano senza veli che ti costringe a guardarti allo specchio. Che ridimensiona le tue frivole pretese, che ti obbliga a fissare l’abisso sotto i tuoi piedi per poter apprezzare maggiormente il cielo che ti sovrasta.

Quanto poco siamo ormai in grado di gustare appieno le nostre vite quando di vite stupefacenti, travagliate e dimenticate siamo quotidianamente circondati.

Altro non posso, nella mia sconsiderata supponenza, che tentare di raccontarle. Di lasciare una scritto permanente di queste esistenze in un mondo di immanente futilità.

Queste righe sono per te, Viola; per te e la tua piccola.

Nella Milano del nuovo millennio che punta al cielo con titanici aghi d’acciaio, dimenticando la terra da cui sorgono, c’eravate anche voi.

Grazie per avermi insegnato così tanto e buona fortuna.

Riccardo Rossetti

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