È ORA, FRATELLO 8 - di Yari Lepre Marrani

No, non dovevo morire per pochi secondi, per un minuto, tutto questo era mostruoso! Ecco perché quei due bestioni erano apparsi scostandosi dai muri che prima li avevano nascosti alla mia vista, con quelle due accette affilate in mano. E adesso erano a pochi centimetri dalla sbarre, pronti ad aspettare ogni mia azione. Mi toccai dappertutto ma ero carne ed ossa, non era un sogno, era tutto reale e potevo sentire i lamenti del mio fiato corto uscire dalla mia bocca. Fu in quel preciso istante che, impugnate le sbarre con i rivoli di lacrime che mi cadevano sino ai piedi nudi, udii il pesante cigolio metallico di una porta che si apriva gettando un ventaglio di luce sulle scale e il terrapieno in fondo al corridoio. Mentre i due energumeni incombevano su di me armati, appena oltre le sbarre della mia sporca cella, guardai oltre il corridoio quell’altissima scalinata in pietra con i miei occhi sfiniti e lacrimosi appoggiandomi, straziato, alle sbarre: vidi due uomini coperti da un saio marrone con un cordiglio attorno alla vita che, scala dopo scala, scendevano dall’alto della gradinata verso il basso, coperti da due cappucci altrettanto marroni e le braccia  unite. Scesero lentamente, impercettibilmente come due spiriti e quando raggiunsero terra vidi che avevano una grossa croce dorata incisa sul saio; non riuscivo ancora a vedere i loro volti poiché i cappucci ben li coprivano e tenevano la testa china in basso. Quel loro progressivo incedere verso la mia cella, passando per il lungo e ampio corridoio, come fantasmi depositari della religione che precede la morte, mi empì il cuore di uno strazio, ben intuendo quale’era il loro preciso compito e perché li vidi proprio ora che la mia salvezza si era perduta in un diabolico gioco di disattenzioni e tempi. Con il mio corpo tremante ed il più acuto dolore nel cuore vidi poi i due energumeni scostarsi di alcuni centimetri dalla loro precedente posizione mentre quei due frati camminavano parallelamente verso la mia cella. Ormai ero realmente all’inferno e non capivo il perché. Ormai tutto crollava, era la fine, dovevo arrendermi al mio destino come il marinaio si arrende alla morte innanzi al più impetuoso dei tifoni. Impugnai le sbarre della mia cella dalla quale poco prima speravo mostruosamente di scappare, stringendone il ferro con gli occhi sempre più appannati dalle lacrime che versavo. E quei due frati avanzarono verso la mia cella, verso di me, camminando così delicatamente che sembravano due eterei fantasmi avanzanti senza che i piedi sfiorassero il pavimento. Li vidi sopraggiungere verso la mia cella e per l’istante di un lampo la mia mente orrendamente provata si bloccò, si spense e stavo per crollare esausto a terra a causa della prova cui i miei nervi venivano sottoposti. Ma non crollai e, piangente, li vidi arrivare procedendo lungo il corridoio fino alle sbarre. Li guardavo con la testa tremante e china, pietosamente, su di una spalla, ormai avvezzo alla mia fine, rassegnato alla mia morte vedendo quei due frati che mi si presentavano, ciascuno, con una croce tra le mani e un rosario grigio.
Quando furono di fronte alla mia cella io non riuscii ancora a vederne i volti. Realizzai però che dovevano essere smunti e magrissimi data la loro gracile corporatura. Il silenzio coprì la mia voce e indietreggiai di qualche centimetro lasciando la presa di quelle sbarre, così attonito che un improvviso,ineffabile riserbo o stupore giunse a chiudermi la bocca e serrarmi le corde vocali e, muto, aspettai che entrassero. Il bestione incappucciato alla mia destra tirò fuori un ampio mazzo di chiavi e mentre i due frati, chini a fissare il pavimento, erano fermi, l’energumeno aprì il cancello della mia cella. I due frati sostarono pochi secondi sulla soglia poi, prima uno poi l’altro, entrarono e mi si avvicinarono aprendo entrambi le mani verso di me come per recitare un Padre Nostro in mia memoria. E quando li ebbi davanti ai miei occhi ben li vidi in faccia scrutando tra le pieghe dello smilzo cappuccio. Quando furono accanto a me e vidi i loro volti raggelai: due facce bianche e scolorite, simili al livor mortis, con due fessure scavate nelle ossa dove luccicavano due pupille grigie iniettate di sangue; volti così magri da potervi vedere l’impronta ossuta di un cranio ricoperto da labili tracce di pelle, insomma il simbolo della morte stessa. Io, fermo con la testa sempre china sulla spalla sinistra a modello d’ineluttabile rassegnazione al supplizio – se tale mi era stato riservato – li guardai per un attimo. Erano entrambi innanzi a me superato l’ingresso nella cella. Con le braccia e i palmi delle mani aperte uno mi disse con voce tanto angelica quanto mortuaria “E’ ora, preghiamo fratello” mentre il suo compagno disse “E’ arrivato il momento, andiamo. Abbiamo ancora tempo per prepararci e pregare assieme”. Fui lì colto dalla più abissale tragedia dell’angoscia e della disperazione, dallo spasmo di una morte ingiusta; iniziai ad agitarmi piangendo istericamente senza nemmeno più riuscire a parlare e vedere, tanto la fatica, la tensione, le lacrime e il sudore, che dalla fronte cadeva a rivoli bagnandomi gli occhi come il succo della desolazione, avevano offuscato  la mia vista. 

continua

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