LA GUERRA DEL NONNO, NEI MIEI SLAVATI RICORDI
- 28 ottobre 2018 Cultura
Nonostante i presagi lo sconsigliassero, rientrò da Buenos Aires, dove era rimasto qualche anno insieme al padre, emigrato in cerca di fortuna, e mio nonno vinse subito una bella bambolina: chiamata alle armi per la Grande Guerra! Lì per lì, sembrava dovesse essere solo una piccola scaramuccia. Giusto una passeggiata di un paio di settimane, per dare una bella lezioncina a quei lazzaroni austro-ungarici, e via alla svelta, con un glorioso ritorno a casa. Poi le cose presero tutt’altra piega e all’idea della vittoria si sostituì quella della sopravvivenza.
Fra rigurgiti risorgimentali mai sopiti di un governo interventista e la neutralità di larga parte degli italiani, treni carichi di aspettative, sogni e possibilità partirono verso il confine. I Futuristi avevano ardentemente salutato quell’intervento nel loro Manifesto, ritenendo la guerra “unica igiene del mondo”. Gli stessi poeti Ungaretti e D’Annunzio furono ferventi interventisti e volontari.
Nei mei cicli scolastici, le pagine della Prima Guerra mondiale si toccavano appena appena, perché si era sempre in ritardo coi programmi. A tale carenza, sopperiva volentieri il nonno Leonardo che, con grande affabulazione, mi dispensava i suoi ricordi di quegli anni terribili, trascorsi nelle trincee fangose, fra paura, sporcizia, ratti e pidocchi in quantità. Qualcuno fra quei ricordi di cui narrava mi è rimasto appiccicato, ma soprattutto era rimasto ben scolpito nella sua memoria.
“Piede peloso in avanti”, soleva ripetere per scherzo, di tanto in tanto. Era il comando che il suo tenente dava quando bisognava mettersi in marcia. In un plotone costituito perlopiù da semianalfabeti, non tutti distinguevano bene neppure la destra dalla sinistra. Ciò aveva suggerito ai loro comandanti di cingere a ognuno la caviglia del piede di partenza con una pelle di capra, consentendo di raggiungere in tal modo quel sincronismo altrimenti impossibile da stabilire.
Per buona parte dei soldati, quello rappresentava il primo allontanamento da casa, il primo vero confronto con altri dialetti, altri localismi, altre culture. In pochi masticavano qualcosa di italiano. Ed erano pochini anche coloro che avevano confidenza col nuoto. Così, quel 24 maggio del 1915 li vide alquanto sconfortati sulla sponda del Piave, davanti al fiume da guadare. Il rimedio lo trovarono in fretta i loro superiori: due grossi tappi di sughero ben legati ai fianchi e un sistema di funi e carrucole per trascinare uomini e zaini dall’altra parte. La marcia per il fronte poteva riprendere.
“Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio…” Dopo il baldanzoso ingresso in guerra la fame si fece sentire quasi subito e il tenente doveva prendere a sciabolate sul culo quelli che rovistavano tra i rifiuti, contendendosi pure le bucce di patate. Ne vide tante il povero nonno, durante le furiose offensive ordinate dal generale Cadorna e sotto le granate che accompagnavano gli assalti alla baionetta. Ogni volta era una nuova carneficina che spegneva il generoso eroismo di migliaia di vite.
Quando fra le trincee si vedevano arrivare i muli coi barili legati ai fianchi era un brutto segno. Storditi dal pessimo vino che veniva somministrato per infondere maggior coraggio, i soldati si spingevano fuori dalle trincee per lanciarsi in corsa verso il filo spinato del nemico, sotto il crepitare delle mitragliatrici austriache che sparavano contro. E se qualcuno indietreggiava o non obbediva agli ordini, era un loro stesso superiore che gli sparava alla schiena, oppure si finiva dritti davanti alla Corte marziale. Tutto per conquistare solo un centinaio di metri, da cui erano costretti a retrocedere qualche giorno dopo. La guerra di trincea mostrava che vince chi si difende, mentre chi attacca è destinato a soccombere. Il nonno ci rimise parte dell’udito, ma riuscì a scampare al fuoco dell’artiglieria. Se la cavò fortunosamente con una ferita sotto l’ascella, che lo salvò dalla prima linea e gli valse una “Croce di Guerra” al merito. Dopo la disfatta di Caporetto, l’odiato Cadorna venne sostituito dal generale Diaz e la guerra ebbe una svolta differente.
Quando a Vittorio Veneto entrarono di corsa i bersaglieri, sotto il vessillo tricolore, vittoriosi e con le piume al vento, mio nonno era fra loro!!! Erano le ore 15 del 4 Novembre 1918.
Nel ’68 ai superstiti ancora in vita arrivò pure il vitalizio di 50.000 Lire ogni anno, insieme all’onorificenza di “Cavaliere dell’Ordine di Vittorio Veneto” con relativa Croce, Diploma e medaglia d’oro. Ero ragazzino ma ricordo bene mentre si stringeva fiero a tre suoi amici commilitoni, per la foto di rito durante la cerimonia di conferimento. Con un po’ di commozione, con quella nuova Croce appuntata sul risvolto della giacca e nella mente le tante croci dei compagni che non ce l’avevano fatta, ora il nonno si sentiva un Cavaliere vero, proprio come uno di quei “Paladini di Francia” di cui tanto amava leggere. Altro che certi cavalieri d’oggi, con l’onorificenza revocata per guai giudiziari e dal cognome accresciuto che inizia per “B”.
Le due Croci, che il nonno si guadagnò, adesso troneggiano nel mio studio, incorniciate dietro la scrivania, in memoria sua e dei moltissimi caduti che una croce sopra non l’ebbero da morti. Solo in Italia, perirono quasi settecentomila persone, tante quante ne falcidiò la concomitante pandemia d’influenza “Spagnola”, che al nonno strappò tre giovani sorelle, giusto un mese prima del suo ritorno a casa. Soltanto quando rimise piede in paese, il suo cuore lacerato dalle sofferenze patite riprese a battere nuovamente… appena incrociò gli occhi di mia nonna che, come tante altre giovinette, cercava fra i pochi sopravvissuti un po’ di amore per scordare quegli anni di strazio.
Conservo con cura una foto del nonno in uniforme, con le fasce mollettiere avvolte intorno ai polpacci. E’ ritratto accanto a un trespolo sormontato dal vaso di fiori e ha una sigaretta fra le dita. Porta l’altra mano al fianco, sopra alla baionetta pendula. L’immagine restituisce un ventenne dall’aria spavalda, com’è in tutte le foto di allora che raffigurano soldati. Scattate poco prima che fossero mandati sui campi di battaglia, le fotografie finivano tra le mani delle loro mamme, per risollevarle un po’ dall’infinita tristezza che le coglieva quando pensavano a quei figli lontani. Ben presto, l’aspetto fiero propagandato ad arte sarebbe mutato del tutto, nell’incessante frastuono dei cannoni.
“Bersagliere a vent’anni, bersagliere per tutta la vita” leggevo a caratteri cubitali su un muro della caserma, dove io, molti anni più tardi, prestai servizio di leva, nelle stesse zone e nello stesso corpo in cui era stato irreggimentato il nonno, che però non fece in tempo a saperlo. Io no… ma son sicuro che egli continuò a sentirsi veramente bersagliere per sempre.
“Chissà se anch’io ho ucciso qualcuno” disse una volta con gli occhi velati di tristezza. Poi raccontò come, la prima volta che lo portarono a esercitazione di tiro, fece ben cinque centri su sei colpi, e il suo superiore lo additò subito come tiratore scelto. Le volte successive, però, i suoi proiettili non andarono mai più a segno. Un tale fiasco gli suggerì che forse aveva risparmiato vittime sul campo, e un po’ si rincuorò.
Fra i cimeli che si trascinò dietro al momento del congedo, oltre alla gavetta, ricordo una maschera antigas che egli mi mostrò in più di una circostanza. Quelle furono le prime distribuite ai soldati, per difendersi in qualche maniera dai veleni tossici che fecero il loro esordio proprio nel corso della guerra. Riuscì a trafugare pure la sua baionetta e la conservò sempre nel comodino… fino alla morte, come la vita al fronte gli aveva insegnato.
“A Trento e Trieste”, usava brindare talvolta nei giorni di festa, levando in alto il bicchiere di vino, sia pure a distanza di tanti anni. E guardava con un certo sdegno quelli della generazione di mio padre che, durante la Seconda Guerra mondiale, si erano fatti levare alcuni territori per cui egli aveva combattuto.
Sembra che sia passato un secolo dalla fine della Grande Guerra. Ed è proprio così!
Leonardo Schiavone