UN NATALE DI TANTI ANNI FA - 1
- 05 agosto 2020 Cultura
Il giorno prima aveva nevicato, e adesso la neve posatasi sui tetti e sui prati, sulle piante e sulle strade brillava sotto il sole di Natale emanando accecanti bagliori di argenteria appena lustrata. Pareva quasi che ardesse, tutta quella neve illuminata dal sole, un fuoco interno il cui calore non riusciva a raggiungere la superficie delle cose, ma soltanto del cuore e dell’anima. Amava il candore della neve da poco caduta perché, forse ancora senza saperlo, ricordava il candore di un foglio sul quale la propria storia personale era ancora tutta da scrivere.
Il Natale per lui era da sempre diviso in due parti: al mattino presto si alzava dal letto per recarsi in sala a vedere cosa Gesù Bambino avesse portato depositandolo sul tavolo. Giocattoli e dolciumi nella prima infanzia, golfini o libri nella seconda. Poi, dopo essersi vestiti e scambiati gli auguri in famiglia si andava alla messa delle nove e mezzo, quella riservata ai giovanissimi.
A celebrarla, nella graziosa chiesetta non lontana da casa, era un sacerdote giovane e bello, che portava il nome del marito della Madonna. Ci si ritrovava così sul piccolo sagrato della chiesa, genitori giovani che accompagnavano figli ancora piccoli, o ragazzini e ragazzine più grandi i cui timidi ma già vogliosi, imploranti sguardi erano spesso il riflesso, il riecheggiare dei battiti dei loro cuori che cominciavano a produrre quei dolci affanni che da sempre la giovinezza comporta.
Ah, la magia di quei freschi visini di adolescenti che si avviano all’età adulta, la pulizia che dalla loro anima trapela insieme alla speranza in un qualcosa che nel futuro avrebbero potuto ottenere. Non era tanto la ricchezza materiale quella vagheggiata, bensì la ricchezza spirituale. Era come in una lucente sera di primavera, quando nell'azzurro intenso del cielo passa silenzioso un aereo lasciandosi dietro una scia biancastra come un tratto di gesso sopra una lavagna. Quella linea priva di sbalzi, di interruzioni, è come il preludio di una frase ancora da iniziare, di una fase della vita ancora tutta da vivere.
Ad accogliere i fedeli, alcuni lì per convinzione, altri per convenzione, erano oltre al sacerdote, alcune suore, generalmente una piccola e buffa, il volto spesso non sorridente non perché non fosse buona bensì perché così era il suo carattere, improntato forse a un eccessivo rigore monastico. Si chiamava Anna, e questo nome palindromo si rifletteva nel suo fisico tozzo, corto, che appariva sempre simpaticamente comico. Spesso scompariva, se solo qualcuno di media statura le si parasse davanti.
L’altra suora era stata chiamata Maria, il nome forse più semplice e bello che una donna semplice e bella possa avere. Era una ragazza molto graziosa, molto femminile, pur se insaccata in una veste che in teoria doveva ridimensionare la femminilità fin quasi a mortificarla. La vivacità del suo bel viso si trasmetteva alla gestualità del suo altrettanto probabile bel corpo, mentre accoglieva i bambini al pari di una pastorella che raggruppava e guidava nelle prime file di banchi, a più stretto contatto con l'altare e i suoi misteri. Le statue di Gesù, della Madonna e di San Giuseppe erano lì, silenziose e come ferme all’epoca lontana da cui questi personaggi provenivano. Era allora bello ascoltare don Giuseppe parlare, il tono della sua voce caldo e rassicurante, nessuna posa da attore nei gesti o nella voce come invece altri suoi confratelli sono soliti assumere, le domande semplici che ad anime altrettanto semplici rivolgeva per poi ricevere risposte commoventi o scopertamente candide. L'odore dell'incenso permeava la chiesa, ed era un odore che proveniva da lontano e che aveva portato lontano, scavalcando deserti, montagne, mari ed epoche.
Quando poi la messa era terminata, dopo i saluti reciproci si tornava alla propria casa, lasciandosi con una sensazione di bontà che la sacralità di quel giorno aveva risvegliato, disciolto quasi, come neve sotto il calore divino del sole.
Antonio Mecca