UNA STORIA METROPOLITANA
- 19 giugno 2020 Cultura
Di Albertina Fancetti
Puntata diciotto
Nino e Michele se ne stavano seduti a fumare a bordo della vecchia Mercedes, parcheggiata vicino ai giardinetti. Aspettavano di intercettare Martina, che sarebbe dovuta passare da lì per raggiungere la casa di Michele. Cecilia era sparita da giorni e nessuno ne aveva saputo più nulla, tuttavia Nino era più arrabbiato che preoccupato, aveva sperato fino all'ultimo di farsi pagare dalla sua ragazza il debito con Pitti. Videro Martina svoltare l'angolo e richiamarono la sua attenzione con un colpo di clacson. La ragazza si diresse titubante verso la Mercedes, meravigliandosi di trovarci a bordo Michele insieme a Nino.
«Michele, non mi dire che hai ricominciato!» domandò subito con voce allarmata.
«Martina per favore non mi rompere!» le rispose sgarbato il ragazzo. «Ho solo bisogno che sali su questa fottuta macchina. Devi farmi un favore, mentre io e Nino sbrighiamo una faccenda. È una cosa molto importante… non posso venirne fuori se prima non la risolvo. Ti prego amore aiutami un'ultima volta!» concluse con il tono convincente che lei ben conosceva.
«Che cosa dovete fare?» chiese Martina sospettosa.
«Niente di speciale, dobbiamo solo andare dal tabaccaio a ritirare una vincita, siamo stati fortunati… Però ci serve che tu resti in macchina, perché non possiamo parcheggiare lontano dal negozio, con tutti quei soldi potrebbero derubarci, hai capito adesso?»
Martina salì in macchina, sapeva di sbagliare, ma come al solito non riuscì a resistere alle preghiere di Michele. L'auto si avviò lungo il viale, percorrendolo per qualche chilometro, poi si fermò davanti a una tabaccheria che confinava con un quartiere periferico. Stava scendendo la sera di una uggiosa giornata lavorativa, pertanto l'esercizio non era particolarmente affollato. Alcuni pensionati giocavano a carte occupando un tavolino, al bancone una donna stava comprando delle sigarette. Nino e Michele scesero dall'auto lasciandola accesa in seconda fila, si avvicinarono alla cassa e puntarono addosso al titolare le loro pistole giocattolo, private dal tappo rosso di riconoscimento. L'uomo, temendo che i due delinquenti fossero sotto l'effetto di sostanze stupefacenti e non avessero pertanto il controllo di loro stessi, non oppose resistenza e consegnò loro l'incasso della giornata. Afferrato il denaro, i due ragazzi risalirono velocemente sulla Mercedes e Nino ripartì sgommando, mentre Michele contava la refurtiva.
«Bastano a malapena per il mio debito…» esclamò scoraggiato.
«O per il mio!» dichiarò Nino.
«Ehi amico, sono io che ho puntato la pistola e ho parlato, tu hai solo fatto da spalla!» disse Michele inquieto.
«Si ma adesso sono io che sto guidando, e ti ricordo che la macchina è la mia… Se non vuoi scappare a piedi, ma non so quanta strada puoi fare» aggiunse ancora Nino.
Tuttavia di strada ne fecero entrambi ben poca, perché due auto della polizia li raggiunsero a sirene spiegate prima che potessero abbandonare il grande viale periferico. Martina si rendeva conto di quanto era accaduto ascoltando il dialogo rabbioso che intercorreva tra i due ragazzi. Quando la polizia li fermò era pallida come un morto e sul punto di svenire. Come in un sogno vide gli agenti strappare fuori dall'auto Nino e Michele e sbatterli violentemente contro il cofano della Mercedes con le mani alzate. Frugandoli trovarono le pistole giocattolo e le sequestrarono.
«Allora stronzetti… Volevate fare i duri eh? Be questa volta vi è andata male!» dichiarò il capo pattuglia assestando un poderoso calcio a entrambi, quindi gli agenti li caricarono tutti e tre su auto diverse accompagnandoli in questura.
Nino e Michele vennero processati per direttissima e rinchiusi nel carcere di Opera. Martina, dopo un penoso interrogatorio, durante il quale riuscì a convincere gli agenti di essere stata all'oscuro riguardo ai progetti che avevano avuto i due ragazzi. Raccontò loro la fandonia della vincita che le avevano propinato per convincerla a restare in auto, mentre loro compivano la rapina dal tabaccaio. Furono chiamati i suoi genitori che andarono a ritirarla dalla questura, il signor Calvi era sbalordito e convinto che ci fosse un equivoco. Carla Calvi era molto agitata, sicura che ormai sarebbe arrivata la resa dei conti anche per lei, si pentiva di aver taciuto riguardo alla situazione di Martina e di aver lasciato che le cose arrivassero fino a quel punto.
Anche i fratelli della ragazza ne furono sconvolti, soprattutto Davide, che dovette confessare di aver riconosciuto in Michele il ragazzo che lo aveva rapinato in quella lontana sera d'estate.
«Ma perché non mi avete mai detto niente?» sbottò il signor Calvi indignato.
«Ormai era arrivato al villaggio come fidanzato ufficiale di mia sorella, come potevo rovinare la vacanza a tutti raccontando quel fattaccio?» esclamò Davide cercando di giustificarsi.
«Ecco perché eri così sconvolto e freddo nei confronti di Michele!» aggiunse Carla.
«Taci Carla per favore! Il tuo comportamento è stato imperdonabile!» disse ancora il signor Calvi con voce alterata dalla collera. «Dovevamo arrivare ad andare a prendere nostra figlia in questura perché venisse a galla la verità… E siamo ancora fortunati! Pensa se gli agenti avessero sparato? In fondo erano convinti che i ragazzi fossero armati».
Ancora scosso, non volle aggiungere altro, e si diresse verso il suo studio per restare da solo a cercare di riprendersi dal trauma. Carla Calvi si sedette sulla poltrona del suo elegante salotto, annientata.
Solo Martina si sentiva sollevata, a dispetto di quella giornata terribile. Dopo aver pianto tutte le sue lacrime durante l'interrogatorio svoltosi in questura, ora si sentiva come se fosse stata tratta in salvo da una tremenda burrasca. Vedeva la sofferenza sui volti dei suoi familiari e si sentiva in colpa, tuttavia quell’episodio tanto eclatante era riuscito a sbloccare una situazione diventata ormai insostenibile.