POESIA DI RICERCA a cura di Alberto Pellegatta
Versi e breve biografia di Mary Barbara Tolusso.
Mary Barbara Tolusso, è nata a Pordenone e vive tra Trieste e Milano (all’Isola) dove lavora come giornalista. Dal 1998 si occupa di teatro, poesia e narrativa per «Il Piccolo» e «Il Gazzettino». Ha pubblicato le raccolte Cattive maniere (Campanotto 2000), L’inverso ritrovato (Lietocolle 2003, Premio Pasolini) e Il freddo e il crudele (Stampa 2012). È consulente editoriale per le edizioni Lietocolle e segretaria di redazione del Premio Biennale Cetona.
Nella nostra collana «Poesia di Ricerca» è uscito l’ultimo lavoro di questa autrice: una piccola rarità editoriale che accosta due delle migliori voci della poesia femminile italiana. Un libro vocativo, Mea infera caro (letteralmente, Mia sotterranea carne), che richiama il sottosuolo dove finiremo, ma evoca anche una corporeità “infernale”. Un testo duro e potente che è stato molto apprezzato dal pubblico: «andiamo avanti, da qualche parte lo spazio dovrà pur finire». Decisamente antiromantica - «Che vuoi che ti dica sotto/la coperta ruvida di un albergo a ore?» - questa poesia si muove tra «nuovissimi traffici» e «scabre adiacenze». Sembra un film, questa poesia della simultaneità, persino «il tuo corpo ti tradisce», nessuno è salvo. La letteratura, finalmente, ritrova un po’ di sangue, non è più per educande, l’io lirico «legge le pareti degli orinatoi». Più che di tensione morale, dovremmo parlare di trazione estetica. Le sue parole evitano «accuratamente la strada/della tenerezza», ma la bellezza affiora nonostante la ruvidità, con «una grazia/insuperabile, senza animo».
I versi che seguono sono di una nitidezza esemplare, e offrono un rifugio al pensiero, in un paesaggio «alla Van Dick».
Qual che si vede è il massacro del giorno
l’ammasso incoerente degli accumuli.
Ma dietro s’accampano cose,
quattro gambe di un letto,
il segnale luminoso di uno schermo,
la coesione naturale della carne
(premere in te la senti e certo pensi
che in niente più ti somiglia)
con i rami più aperti, la corteccia
che si apre a fusto
sui filati pettinati della luna.
*
Molti se ne sono andati, singoli individui,
famiglie intere, generazioni di tetti a punta
che si spingono. In sogno li dipingo
alla Van Dick, con una luna poco
lunare. Tubature, soppalchi,
pareti non sono più che rammendi.
Lo spazio dà rilievo al soggetto,
una civetteria dell’epoca, una fine
di diaboliche impertinenze.
Le stagioni morte diventano eterne
e durano sempre più a lungo. Vanno
ripetendo che hanno avuto un cuore
con gli occhi fissi al sogno. Ma la vita
mica è una questione di cuore.