IL RISORGERE DEL MALE 6

La Quarantaduesima Strada era da sempre stata una via particolare, la strada dello spettacolo e del vizio (cosa l’una che non esclude l’altra), la strada delle donne e degli uomini di strada.

Le donne, per la verità, erano da marciapiede, mentre sulla strada ci finivano generalmente gli uomini: drogati, alcolizzati, senza più fissa dimora. Era di notte che la strada viveva, illuminata com’era dalla profusione di neon multicolore simile a un groviglio di vene dentro cui circola sangue luminoso. Il fatto era che dentro quei tubi non circolava un bel nulla. Erano le lampadine-globuli che si accendevano e spegnevano a simulare il movimento interno, ma in realtà tutto ristagnava nell’immobilità di sempre. Di giorno invece, caduto il make-up, lo squallore prevaleva sovrano, in attesa del riaccendersi dell’illusione notturna. Se di notte la strada viveva, di giorno languiva. Era quella un’arteria cittadina che pareva un’arteria del corpo umano, un’arteria iniettata di droga che al momento procura euforia, per poi di lì a poco ridurti a una larva.

L’America è spesso così, soprattutto nelle città. Perché noi che abbiamo attraversato gli oceani per venire a trovare fortuna, siamo più tipi da grandi spazi che non da grandi ammassi di edifici.

Le città le vivono meglio gli europei, privi di grandi praterie e ben poco portati verso il nomadismo.

L’America è un bluff, una perpetua, continua ricerca del sogno americano che proprio in quanto sogno è impossibile afferrare. Qualcuno si avvicina anche, a questo sogno, ma una volta raggiunto lo scopre deludente ed eludente: un inganno ben costruito, quello che Miller: Henry, il vero, grande scrittore fra i due provvisti dello stesso cognome, definiva “Incubo ad aria condizionata”, vale a dire un mondo tecnologicizzato ma privo, in sostanza, di autentica vita.

Il nomadismo zingaresco ce lo portiamo appresso ereditato dai padri pellegrini, fondatori o affondatori di un Paese immenso, crudele, proseguito con i pionieri e scippato agli indiani che ne fecero uso fino all’Ottocento avanzato. Chi fra noi si radicava in città finiva in fondo per diventare un disadattato, che solo con l’alcool se andava bene riusciva a colorare di rosa la propria esistenza. Ma era un rosa del colore cancerogeno di un male incurabile: il male di vivere americano, appunto.

Feci il giro dei vari alberghi che trovavo lungo la strada. Secondo me Mr. Dimitrevic doveva avere occupato un hotel a buon mercato ma non comunque quel che si definisce una stamberga. Per cui scartavo a priori questi ultimi per entrare solo in quelli un po’ più “in”. Fu al diciannovesimo che mi riuscì di fare centro: Hotel Metropoli.

Quando chiesi per l’ennesima volta all’ennesimo receptionista se avevano avuto come cliente un uomo di nazionalità slava che rispondeva probabilmente al nome Dimitrevic, la risposta che ricevetti fu affermativa.

- È stato qui fino alla scorsa settimana – disse.

- Quando, per l’esattezza, è andato via?

Consultò il computer per mezzo minuto. Dopodiché giunse la sua risposta.

- Giovedì, al mattino.

- Era arrivato quando?

- Il venerdì della settimana prima.

- Solo?

- Sì.

- Ha incontrato qualcuno, mentre era qui?

- Non mi risulta.

- Telefonate fatte o ricevute…?

Controllò. - No - disse poi.

Chiesi se si ricordava di una donna così e cosà che era venuta a cercarlo. La risposta, ancora una volta, fu negativa.

Pensai che forse Gracida lo avesse incontrato fuori da lì.

Poi descrissi Raymond, l’investigatore privato. La risposta fu questa volta affermativa.

- Sì, me lo ricordo. È venuto a parlarmi quando ancora Dimitrevic era qui. Mi ha raccomandato di non metterlo sull’avviso e così è stato.

Dietro ricevuta di una cospicua mancia, pensai. Dissi, invece:

- Dopo quanti giorni dalla visita dell’investigatore, Dimitrevic se ne è andato?

- Credo due o tre giorni dopo.

Ci rimuginai sopra per un po’.

- Va bene. La ringrazio molto - dissi infine. Lui mugugnò qualcosa e tornò poi ad immergersi nella lettura del suo giornale sportivo.
Antonio Mecca