"Ce ne ricorderemo di questo pianeta"

Portava il nome di un genio dell'Arte ed era anche lui un genio: della scrittura intesa come arte; ma non l'arte barocca che spesso - soprattutto un tempo, e soprattutto al Sud - predominava sui contenuti. Leonardo Sciascia era scrittore che preferiva all'abbondanza e al sovraccarico del barocco uno stile leggero ma non meno leggiadro, fatto più di sottrazioni che non di addizioni.

Nacque (ma non nocque, perché piacevolissimo da leggere) a Racalmuto, provincia di Agrigento, l'8 gennaio 1921, lo stesso anno in cui nacque Frédéric Dard-Sanantonio, scrittore francese apprezzato dallo scrittore siciliano che amava fra i generi letterari anche il poliziesco a cui dedicherà una breve storia del romanzo poliziesco. Nel 1935 la sua famiglia trasferitasi a Caltanissetta lo iscrive all'Istituto Magistrale IX maggio dove insegna Vitaliano Brancati, scrittore di quattordici anni più grande di lui che Sciascia prenderà in seguito a leggere, ad apprezzare e a commentare. Nel 1941 consegue il diploma magistrale, e tre anni dopo sposa una sua collega: la maestra Maria Andronico, dalla quale avrà due figlie. Il primo libro pubblicato da Sciascia è "Favole della dittatura", uscito nel 1950, e recensito da Pasolini. Due anni dopo appare la raccolta di poesie "La Sicilia, il suo cuore", e nel 1953 il saggio "Pirandello e il pirandellismo". Nel 1956 "Le parrocchie di Regalpetra", libro quasi autobiografico dove Regalpetra sta per Racalmuto. Nell'anno scolastico 1957-1958 è trasferito a Roma al Ministero della Pubblica Istruzione. Esce in quel periodo "Gli zii di Sicilia", raccolta di tre racconti alla quale nell'edizione del 1960 se ne aggiungerà un quarto. Dopo un anno trascorso a Roma farà ritorno a Caltanissetta in qualità di impiegato in un ufficio del Patronato scolastico. È del 1961 forse il suo romanzo più famoso: "Il giorno della civetta", che in una vicenda immaginaria tratta di una realtà purtroppo più che reale: quella di una società e di una terra inquinate dalla mafia. Pochi anni dopo, 1968, ne viene tratto un film diretto da Damiano Damiani, oltretutto somigliante nel viso all'inviso da parte criminale Carlo Alberto Dalla Chiesa, così come il capitano dei carabinieri Bellodi del romanzo secondo alcuni sarebbe modellato sulla figura di Dalla Chiesa. Ma sarà in seguito lo stesso Sciascia a smentire questo rivelando a chi si era ispirato: il comandante dei carabinieri di Agrigento Renato Candida, originario della Puglia e da lui conosciuto nell'estate del 1956. Nel 1967 la famiglia Sciascia si trasferisce a Palermo per stare accanto alle figlie iscritte all'università. Due anni dopo inizia a collaborare con il "Corriere della Sera" scrivendo articoli che spaziano dalla cultura alla Società, alla mafia, al nascente terrorismo. Nel 1970 andrà in pensione come maestro elementare ma non come maestro di vita, intensificando anzi i suoi impegni nel campo della scrittura e della politica, dove nel giugno del 1975 si candida come indipendente nelle liste dell'allora Pci. Ottiene il secondo posto come numero di preferenze, piazzandosi dopo Achille Occhetto e prima di Renato Guttuso, vale a dire fra un politico di professione abituato a descrivere con toni privi di chiaroscuri la realtà come è, e un pittore comunista per idealismo e miliardario per concretezza il quale usava il pennello per dipingere la Società, non imbiancandola come nei sepolcri omonimi della parabola evangelica bensì piazzandola in rilievo e spesso a colori con i suoi segni precisi e talvolta scioccanti. Ma all'inizio del 1977 Sciascia si dimette sia perché contrario al compromesso storico, sia perché rifiuta certe forme di estremismo evidentemente incoraggiate dal partito ufficiale della Sinistra. Pochi mesi dopo il rapimento e la successiva uccisione di Aldo Moro, Sciascia pubblica sempre nel corso di quel 1978 "L'affaire Moro", un pamphlet che si apre rievocando Pasolini e descrivendo subito dopo la tragica vicenda dello statista democristiano insinuando che dietro la sua morte ci possano essere altre e più alte figure che hanno eterodiretto le mosse dei manovali del terrorismo nostrano. Nel giugno del 1979 si candida per i radicali sia al Parlamento europeo sia alla Camera. Viene eletto in entrambe le sedi istituzionali ma mentre a Strasburgo sceglierà di restare solo due mesi, a Montecitorio vi rimarrà come deputato fino al 1983. Qui si occuperà della commissione parlamentare d'inchiesta sulla strage di via Fani. Sciascia fu contro il pentitismo (sia per quanto riguardava il terrorismo sia per quanto riguardava la mafia), un pentitismo di comodo che spesso premiava troppo il criminale senza curarsi di tutelare l'accusato che non di rado era incolpevole (vedi Enzo Tortora, che lo scrittore difese in vari articoli). In quello stesso anno escono due suoi splendidi libri: "Nero su nero", raccolta di scritti giornalistici; e "La Sicilia come metafora", lunga intervista concessa alla giornalista francese Marcelle Padovani alle cui domande su mafia, terrorismo, società, scrittori risponde con lunghe dissertazioni sugli argomenti richiesti. È del 1989 il suo ultimo romanzo: "Una storia semplice", uscito lo stesso giorno della sua morte, avvenuta il 20 novembre di quell'anno. Sulla sua tomba, lo scrittore volle questa epigrafe del collega francese Auguste de Villiers de L'Isle-Adam: "Ce ne ricorderemo, di questo pianeta". Frase coniata da De Villiers nell'Ottocento ma sempre valida, per noi umani, in ogni secolo. Leonardo Sciascia è stato uno scrittore impegnato fin dai suoi esordi, e per il quale è valido anche per lui ciò che disse l'autore del famoso "Il piccolo principe", Antoine de Saint. Exupery: "Non bisogna imparare a scrivere ma a vedere. Scrivere è una conseguenza". Due motti coniati da due autori di quel Paese: la Francia, che Sciascia tanto amava e dove spesso: Parigi in particolare, tornava. Degli scrittori francesi  il suo preferito fu Stendhal, vissuto a cavallo del Settecento e dell'Ottocento. Stendhal che amava Milano così come Sciascia, il quale disse una volta che se non fosse stato sposato vi avrebbe voluto abitare, forse in via Manzoni. La via che porta il nome del massimo scrittore milanese, autore del massimo romanzo italiano: "I promessi sposi", da sempre la chiave di lettura per meglio comprendere l'Italia e il suo eterno complesso sistema politico e amministrativo.

Antonio Mecca

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