L’ELEZIONE DI BONOMI ALLA CONFINDUSTRIA FAVORIRÀ IL RINNOVAMENTO DEI GRUPPI DIRIGENTI?
- 28 marzo 2020 Cronaca
di Walter Galbusera
Salvo imprevisti il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi sarà eletto il 16 aprile alla guida della Confindustria, con un voto “a distanza” reso necessario dalle circostanze. Certo si tratta di un naturale avvicendamento al timone della più importante organizzazione imprenditoriale italiana previsto dalle regole statutarie. Ma l’elezione di Bonomi qualche mese fa non era scontata, soprattutto per una certa diffidenza degli apparati confindustriali che, come avviene nelle strutture associative, esercita un potere reale che riesce spesso a “orientare” la base.
Del resto una buona parte del mondo
industriale ha spesso preferito tirare a campare piuttosto che esporsi su
progetti affascinanti ma scomodi. I tempi però sono drammaticamente (e
improvvisamente) cambiati e in una realtà vitale come quella delle imprese
l’esigenza di un “cambio di passo” è particolarmente sentita. Il personaggio
sembra dotato di una forte personalità che lo ha spinto in questi giorni a
reagire, con una determinazione sconosciuta al tradizionale “understatement”
confindustriale, di fronte alle accuse non molto velate agli industriali di
ostacolare la chiusura delle attività non essenziali. Sottolineando che le
fabbriche che violano le regole vanno chiuse, Bonomi ha evocato i toni del
celebre discorso del 9 marzo 1977 di Aldo Moro in Parlamento (“chiediamo di
essere rispettati e non ci faremo processare nella pubblica piazza”) sullo
scandalo Lockeed, affermando che: “Gli industriali non sono assassini e non se
lo fanno dire da nessuno”.
Del resto l’infelice decisione dei sindacati di minacciare uno sciopero
generale, anziché intervenire sui casi di violazione delle norme di sicurezza
nelle situazioni concrete, ha fornito agli industriali l’occasione di far
rilevare come le filiere di prodotti essenziali siano trasversali e occorra
evitare di metterle in crisi. Nella “carriera” di Bonomi c’è un elemento di
discontinuità rispetto alla “morta gora” delle attuali relazioni industriali,
che va ricordato.
Nel maggio 2018, prima della inattesa nascita della coalizione di governo tra
Lega e 5 stelle, Assolombarda diffuse un libro bianco sulle relazioni
industriali con la finalità dichiarata di “produrre pensiero” alla ricerca di
un cambiamento assumendosi “la responsabilità di non seguire il consenso ma di
proporre quello che serve al paese”. Non a caso le ricette indicate erano ben
lontane dalle scelte poi effettuate del primo governo Conte e, in gran parte,
confermate dal secondo. Il documento sottolineava che la globalizzazione e le
nuove tecnologie mettevano in crisi i tradizionali canali di rappresentanza a
vantaggio di una “nuova centralità” del territorio e che la diffusione della
contrattazione di secondo livello, cogliendo al meglio le specifiche dinamiche
aziendali, poteva generare valore in termini di produttività, competitività e
benessere del lavoratore. Era una forte sfida culturale e politica alle
istituzioni e al sindacato. È ancora attuale questo progetto? Probabilmente sì,
soprattutto nella fase di ripresa.
Le conseguenze economiche della pandemia saranno molto gravi: senza evocare una
depressione planetaria o qualcosa di simile al 1929 non possiamo neppure
illuderci di ripartire dalle crisi “tradizionali” del secondo dopoguerra.
Sconfitto il coronavirus sarà assai impegnativo ricostruire la “normalità”,
garantendo un sostegno adeguato ai lavoratori dipendenti, agli autonomi e alle
imprese che si troveranno nelle maggiori difficoltà. Appare sin d’ora
necessario il delinearsi di una strategia di intervento pubblico massiccio ed
esteso, come sostegno transitorio al sistema produttivo patrimonio inalienabile
del paese. A condizione però di evitare il rischio di ripetere meccanicamente
le statalizzazioni del tipo Alitalia.
La gravità e la inevitabile impopolarità delle decisioni che le istituzioni e
le forze politiche e sociali dovranno assumere ha reso evidente le disastrose
conseguenze provocate dalla eliminazione pressoché totale di una classe
dirigente che, pur nei suoi limiti ed errori, era stata protagonista della
ricostruzione e della rinascita del paese tra il dopoguerra e i fatali anni
novanta. L’incompetenza, la superficialità, l’improvvisazione, ma soprattutto
la mancanza della consapevolezza che il legittimo esercizio del potere è
inscindibile dalla assunzione delle responsabilità, hanno reso fragilissime le
istituzioni, tanto il governo quanto le opposizioni.
Non è un caso che, ben prima del coronavirus, si è spesso andati alla ricerca di
personalità autorevoli, per competenza e onorabilità, nel tentativo di dare
soluzioni a un quadro politico complessivamente confuso e privo di identità
progettuale. Lo stesso massiccio intervento che tutti auspicano da parte
dell’Ue, “what ever it takes”, richiederebbe, per razionalità politica e senza
alcuna umiliazione nazionale, anche la disponibilità alla cessione di sovranità
da parti dei singoli paesi per riprendere la via degli Stati Uniti d’Europa.
Difficile che oggi gli attuali gruppi dirigenti possano (e vogliano) assumersi
questo fardello. Per questo c’è bisogno di far crescere nuove leadership,
saldamente ancorate alla concezione di uno stato liberal-democratico e ai
valori della solidarietà, per accelerare la ricostruzione di una classe
dirigente in grado di affrontare con coraggio e credibilità un futuro incerto.