Lee Jeffries e i suoi homeless

Ho sempre pensato che fotografare una persona senza il suo consenso sia un atto invasivo, quasi un sopruso, perché ciascuno ha il copyright di sé stesso. Molto meglio utilizzare le parole per descrivere chi si intervista, un amico, un conoscente.

La riprova è quanto occorso al fotografo autodidatta Lee Jeffries (Bolton, UK, 1971) che nel 2008, a ridosso della maratona di Londra, nelle strade dove forse si stava allenando, riprende una ragazza senzatetto. Possiamo immaginare le proteste della giovane donna e l’imbarazzo del fotografo, tra l’altro serio professionista ma amante degli scatti.

Questo episodio segna un mutamento nel suo hobby per Lee Jeffries al quale il Museo Diocesano Martini dedica ora la personale “Portraits. L’anima oltre l’immagine”. 

Per Lee gli homeless, i diseredati, gli scarti della società hanno qualcosa in più da raccontare rispetto alle persone normali. Le rughe, i visi sfatti, i capelli incolti, gli occhi spesso persi nei ricordi di una vita che ha mancato le sue promesse, talvolta certi sorrisi disarmanti: tutto ciò merita di essere rappresentato. 

Comprende allora di dover creare un contatto con loro e va a cercarli nelle strade anche pericolose di città europee e di Los Angeles, li frequenta, porge un aiuto, arriva a dormire con loro in strada. Alla fine di questo percorso empatico e molto personale, Jeffries scopre che anche gli emarginati amano essere guardati, accolti, fotografati.

La foto diventa allora un modo per ridare dignità ad esseri che la vita ha reso fragili. Così maestoso, quasi un personaggio biblico appare Tomas, Stoccolma, 2015, dove la lunga ed incolta barba si confonde con il bavero di pelliccia; con gli occhi spaventati, la mano a coprire la bocca e un vecchio foulard a proteggere la testa è Susan, New York, 2018; composto il volto di Lady B., Oxford, 2013, che sottolinea la sua passata estrazione sociale; sofferto ma innocente lo sguardo della bimba Bea., Manchester, 2012.

Nella mostra curata da Barbara Silbe e Nadia Righi, sono esposte circa 50 immagini, come ritratti ravvicinati, per lo più in bianco e nero e rielaborate a computer. 

Lo sfondo monocromatico scuro e i contrasti tra luci e ombre si addolciscono nella carta-cotone utilizzata per la stampa delle foto conferendo ai volti, e talora alle semplici mani riprese, un forte impatto emotivo. La mostra, in programma fino al 16 aprile, è un felice connubio di arte e tecnologia.

Vittoria Colpi

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