DISCONNESSI E FELICI

Milano, poco dopo mezzanotte. Semaforo all’angolo tra via Teodosio e via Casoretto. Appena scatta il verde, il conducente accelera bruscamente per girare a sinistra e centra in pieno la portiera di un altro veicolo in attraversamento. Macchina da mandare al macero per l’automobilista di passaggio ma invalidità permanente scongiurata per un pelo. L’ambulanza sopraggiunta trova il telefonino del colpevole appoggiato sul cruscotto e lui riverso, quasi privo di sensi. Chissà se l’ha fatta franca o quel vizietto gli è stato fatale.
Piazzale Loreto, qualche mese prima. Una svegliona, che guida fissando il cellulare, all’improvviso ricorda di dover svoltare a destra, in via Padova, e taglia disinvoltamente la strada a chi viaggia di fianco. Può vantare pure l’aggravante di essere priva dell’assicurazione.
Episodi all’ordine del giorno in una grande metropoli come la nostra, ma che lasciano il segno, soprattutto se la vittima... sono io.
Più che mai, questa nostra epoca si caratterizza per la corsa sfrenata all’ipertecnologia, sempre prodiga di grandi promesse, con cui tutti abbracciano, acritici ed entusiasti, la società dell’immediatezza che obbliga ad agire in fretta e a riflettere poco, sia prima e sia dopo l’azione. Gli effetti di una tale condotta collettiva potranno essere valutati solo a distanza.
Non si può fare a meno di condividere lo scrittore Daniel Pennac, nel suo timore che stiamo avvicinandoci al “grado zero di riflessione”. Lo si rileva anche dalla velocità con cui i giovani si scambiano i loro messaggini. E’ una comunicazione che passa direttamente dal cervello alla mano, dal desiderio alla soddisfazione immediata dello stesso. Una modalità che non tiene conto della nozione di senso, di esattezza, di conformità grammaticale e ortografica. Qualche effetto lo sta producendo nel modo stesso in cui pensano e si esprimono.
Ma tutto questo correre e accelerare la vita, questo parossistico voler essere smart a ogni costo, che senso ha e per quale ragione ci si adegua supinamente? Fare più cose nello stesso tempo per accumulare più beni e oggetti (simulacri, e non vera felicità) durante l’esistenza? E’ un sano obiettivo o sarebbe meglio mirare maggiormente alla qualità di ciò che si fa, invece che alla quantità e al soldo? 
Tanto affannarsi per finire sempre e comunque fra i cipressi, dentro una bara che non ha tasche!
L’errore umano sta diventando una costante sempre più frequente nelle sciagure che ci riguardano, incidenti automobilistici compresi. Sarà perché la concentrazione è turbata dalla spasmodica attenzione riservata allo smartphone che divora qualunque micro pausa, che è sempre presente nelle mani e sotto gli occhi, nell’assurda convinzione di poter fare più cose contemporaneamente?
Nella nostra natura, non vi è ascritta alcuna capacità di eseguire più attività in parallelo, come riescono a fare i computer. E smettiamola una buona volta con l’elogio sfrenato del multitasking! Siamo concepiti per la serialità delle azioni, lo dicono i biologi. Solo affrontando una cosa per volta riusciamo a far bene e a metabolizzare come si conviene. Sempre più studi affermano che, diversamente, riusciamo a memorizzare assai meno e crescono solo stress e rischi di combinare guai.
A chi sostiene il contrario, domando se si farebbe operare volentieri da un chirurgo che ogni tanto butta l’occhio al telefonino, mentre ha le mani immerse nell’addome di chi ha sotto i ferri.
Dice bene il filosofo Galimberti, a conclusione del suo libro “L’uomo nell’età della tecnica”: Ormai non si tratta più di stabilire cosa può fare la tecnologia per l’uomo, ma cosa può fare la tecnologia dell’uomo!
In tutto questo bailamme che attira nella Rete, il marketing gioca un ruolo fondamentale con le tariffe flat del “tutto compreso” che da tempo accompagnano la vendita dei gingilli di nuova generazione, invogliando a telefonate superflue e a restare sempre online. Le tariffe “a consumo” non spingevano a tanta frenesia.
Provo un rifiuto ideologico per i sedicenti benefici della “connessione permanente”, in favore della libertà di essere sconnesso e del lusso di vivere senza dipendenza. Compiango chi non riesce proprio mai a staccare la spina, candidandosi a precursore di una nuova invalidità civile. Ti parla fissando lo schermino e gira a testa bassa, titillando senza sosta uno o più giocattolini, adorando l’ultima novità del mercato, perdendo la vera relazione col mondo circostante, schiavo e ossessionato da quel dover essere continuamente “in Rete” per sentirsi omologato. Anche se, tante volte, non ne avrebbe alcun bisogno.
Ho visto una mamma spingere il passeggino mentre era intenta a guardare il telefonino che sfuggiva di mano e finiva addosso al pupo. Ho visto un ragazzo, apparentemente sveglio ma con le orecchie occluse dalle cuffie,  rischiare d’essere stirato da un tram. Probabilmente, stava rimirando un video su YouTube dove un altro beota della sua stessa fatta finiva a sua volta sotto al tram. Ho visto pure una cinese, viaggiare regolarmente in bicicletta sul marciapiede, col telefono all’orecchio, che non riuscendo a frenare si schiantava contro la saracinesca di una panetteria.
Nella mia personale collezione non manca neppure una tizia che scendeva davanti a me le scale della metropolitana, ipnotizzata da chissà quale social, che stava finendo addosso a un tizio col bastone bianco, se non fosse stato proprio quest’ultimo a schivarla.
Ma il massimo del godimento me l’ha offerto una signora che abita in un condominio di fronte al mio. Lei è eternamente persa nel cellulare tutte le volte che la incrocio. Una mattina dell’estate scorsa, la fortuna ha voluto mettere in contatto una deiezione canina con la suola di un suo sandalo, proprio mentre io le passavo accanto. “E adesso scarica l’App per pulirti!” mi veniva da suggerirle, mentre imprecava per l’improvvida esperienza sensoriale. Mi sono trattenuto a stento, solo perché il riso ha preso il sopravvento in me, che giro ancora con uno di quei cervelli che si usavano un tempo.

Leonardo Schiavone

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