IL NEGOZIO CHE NON C'È... PIÙ

La crisi legata all'epidemia ha già fatto le prime vittime

Fino a due settimane fa le strade di Milano erano deserte.

Ora che qualche forma di vita ne ha ripreso possesso, il deserto si è trasferito nei negozi che hanno già chiuso o che sono destinati a chiudere.

Questo è, purtroppo, lo scenario che si prospetta.

Si prospetta a quanti sono alle prese con tasse troppo alte a fronte di zero guadagni e hanno perfino, destino beffardo, i dipendenti in attesa della cassa integrazione.

Non è andata meglio a chi ha tentato la strada del prestito da 25.000 euro in banca.

Tra burocrazia kafkiana e l'idea di fare altri debiti, più di qualcuno sta decidendo di lasciar perdere.

È già successo che i grandi gruppi stranieri, per lo più di abbigliamento, abbiano ridimensionato la presenza in città. In questo caso, a gravare sui bilanci, ci sono anche i canoni elevati dell'affitto.

L'aspetto surreale di questo scenario è anche la stasi. Mi spiego.

Prima del coronavirus, le trattative di compravendita dei negozi e i passaggi di proprietà avvenivano in tempi molto brevi.

Chi si è trovato in questa situazione al ridosso del confinamento è ora bloccato in una specie di limbo.

Stando così le cose allo scoccare del 18 maggio, data prevista per la riapertura dei negozi, il volto di tante strade di Milano e non solo le note Buenos Aires, Vercelli e Vittorio Emanuele, sarà molto diverso e, secondo me, più triste.

Non solo per l'assenza del negozio in sé ma per la rabbia e la delusione di tanti titolari e dipendenti rimasti senza lavoro.

Si stima che i negozi più piccoli che non rivedremo saranno il 25% dei circa 15.000 presenti in Lombardia.

Davvero Tanti, addirittura Troppi.

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