MERCATO DEL LAVORO NEWS
- 16 settembre 2019 Cronaca
Come far sì che il taglio del cuneo fiscale e contributivo serva all’economia e non solo al consenso elettorale
Il taglio del cuneo fiscale contributivo sulle retribuzioni è, almeno
nelle dichiarazioni, una delle priorità del nuovo governo. Non è una
novità assoluta, già altri (Prodi 2, Berlusconi) erano intervenuti con
limature delle aliquote e Renzi con i famosi 80 €. Stavolta però, almeno
a parole, l'intento doveva essere quello di tagliare con decisione il
cuneo, per determinare effetti macroeconomici e non soltanto consenso.
Del resto è una vita che sindacati e imprese denunciano gli effetti
deleteri di una sproporzione eccessiva tra costo del lavoro e
retribuzioni nette, confortati anche dal paragone con la realtà
dell'Europa.
Tuttavia per evitare che il tutto si riduca a declamazioni e
interventi pasticciati (vedi Reddito di Cittadinanza o Decreto Dignità)
sarebbe opportuno che della cosa si discutesse sul serio, a partire da
un'analisi delle condizioni reali e sapendo con chiarezza che effetti si
vogliono determinare.
Quanto a quest'ultima questione, occorre prima di qualsiasi
ragionamento chiarire se l'obiettivo è mettere più soldi in tasca ai
lavoratori (aumentare le retribuzioni nette) oppure tagliare il costo
del lavoro per le imprese.
Se è il primo, è opportuno considerare se si vuole operare (in toto o
prevalentemente) sulla componente fiscale o su quella contributiva.
Operando sulla parte fiscale si determinerebbe una situazione
problematica: il 2% dei lavoratori dipendenti non paga perché ha IRPEF
negativa, o perché ha un reddito inferiore a 7.500€/anno o perché scende
sotto i 15.000 € di imponibile per effetto di deduzioni – detrazioni.
Non avrebbe quindi alcun vantaggio da un taglio dell'IRPEF (salvo aprire
la questione dell'incapienza, che comunque non avrebbe nessun effetto
sul cuneo fiscale). Le retribuzioni tra 15.000 e 20.000 € pagano
mediamente 1.237 € di IRPEF, e sono circa il 5% dei lavoratori; qui
comincerebbe a esserci margine per intervenire con tagli d'imposta,
anche se il taglio di cui si sente parlare (1.500 €) azzererebbe
completamente l'IRPEF su questa fascia. Dove ci sarebbe sostanza per
intervenire in modo significativo è sulla fascia da 20.000 € a 35.000
(circa il 76%, grosso modo 14 milioni di lavoratori, che pagano
mediamente 4.000 €) e su quella tra 35.000 e 55.000 € (1.900.000
soggetti che pagano oltre 10.000 €). Evidentemente il tagliodell'IRPEF
in termini percentuali uguali per tutti avvantaggerebbe progressivamente
i redditi più alti.
Non cambierebbe sostanzialmente la cosa se si decidesse di
intervenire detassando tutti gli aumenti retributivi da qui in futuro,
sia quelli derivati dalla contrattazione collettiva che i superminimi
individuali (cosa peraltro utilissima se ha come fine quello promuovere
la contrattazione di secondo livello e il welfare aziendale).
Se vogliamo rimanere al primo obiettivo (più retribuzione netta)
sarebbe più efficace intervenire sulla componente contributiva del
cuneo: già l'eliminazione dei contributi previdenziali a carico dei
lavoratori determinerebbe un aumento del 9% della retribuzione netta,
che può crescere fino al 10 con alcune contribuzioni marginali. In
questo caso il taglio sarebbe lineare, con benefici concreti per tutti i
lavoratori. Naturalmente occorre però impedire che il taglio della
contribuzione abbassi il monte contributivo, e questo non può essere
fatto che trasferendo alla fiscalità generale l'onere di coprire i
contributi. Con un'avvertenza: non si può pensare di trovare le risorse
necessarie con un taglio generalizzato di deduzioni e detrazioni, perchè
in questo caso aumenterebbe il prelievo fiscale sulle retribuzioni
vanificando tutta l'operazione. Potrebbe invece essere possibile
intervenire su deduzioni-detrazioni eliminandone alcune non strettamente
essenziali, ma i margini di manovra sarebbero esigui, comunque non
decisivi. Si potrebbe anche correre il rischio di derogare la copertura
effettiva dei contributi mancanti rinviandola al momento dei
pensionamenti effettivi, sperando che nel frattempo aumentino le entrate
fiscali (lotta all'evasione, applicazione del “conflitto di interessi”,
aumento del PIL). La copertura probabilmente dovrà essere frutto di un
concorso di manovre delicate e complesse, che non dovranno ovviamente
ricadere sulle retribuzioni per non dar luogo a una beffarda partita di
giro.
Per dare un'idea dell'ordine di grandezze con cui avremmo a che fare,
in Francia, dove la decontribuzione è decrescente al crescere della
retribuzione (si applica comunque a salari fino a circa 5.000 euro al
mese e al livello del salario minimo, 1.500 € al mese, praticamente
azzera i contributi) la copertura annua costa allo Stato 60 miliardi.
In questo contesto si potrebbe anche indagare se una fonte di
finanziamento potrebbe essere un aumento della tassazione indiretta (IVA
in primo luogo); in questo caso però sarebbe inevitabile estendere la
decontribuzione ai lavoratori autonomi, generando una manovra certamente
equa, ma parecchio pesante.
Vediamo ora il secondo obiettivo, ossia il taglio del costo del
lavoro per l'impresa, che potrebbe essere realizzato sia tagliando i
contributi pagati dall'azienda sia trasformando in credito fiscale parte
del costo della retribuzione: in questo caso l'obiettivo atteso è
l'incremento di competitività grazie alla riduzione dei costi di
produzione (tanto maggiore quanto minore è il grado di innovazione
tecnologica in azienda) e di occupazione. In teoria si potrebbe operare
sui due versanti, ma in questo caso, a meno di impegnare coperture
fiscali ingenti, gli effetti sui salari netti e sul costo del lavoro
rischierebbero di essere marginali e poco “percepiti”.
Di tutt'altro tono pare essere, secondo le ultime notizie di stampa,
l'intervento su cui starebbe ragionando il Governo: un bonus di 1.500 €
da versare in un'unica tranche tipo 14esima mensilità, ai redditi fino a
26.000 € annui. Innanzitutto questo provvedimento interessa solo il 35%
dei dipendenti, tra i quali, una buona parte ha IRPEF negativa o a
zero. Ma soprattutto non influisce per nulla sul cuneo
fiscale-contributivo, e si risolverebbe in un sostegno di puro carattere
assistenziale ai redditi più bassi. Nulla di coerente con le premesse
di cui parlavamo all'inizio, neanche tanto pagante in termini di
consenso elettorale, vista la piccola dimensione della platea che ne
beneficerebbe. Si tratterebbe di un'ennesima occasione persa per
intervenire sui problemi strutturali del rapporto costo del lavoro –
retribuzioni. Del resto l'ammontare delle risorse di cui si parla per
finanziare l'operazione (5.000 €) dà l'idea di un intervento estetico e
non strutturale.