Il Giallo Delle Ore 8

INDAGINE IN BIANCO E NERO
Capitolo nove

Nel tempo impiegato per raggiungere la mia Dodge e salirvi a bordo e mi ero formato la bozza di un piano da verificare. Consisteva nel dirigermi a Tijuana, la cittadina di confine con il Messico, e lì recarmi all’aeroporto. Imboccai quindi l’autostrada guidando sull’asfalto ancora bagnato che il sole da poco riapparso stava finendo di asciugare delicatamente. Guidando ascoltavo alla radio una canzone di Justin Timberlake, una musica piacevole da ascoltare perché furbescamente composta, una di quelle canzoni che ti fanno fare pace con l’esistenza perché sembrano trasformarla in qualcosa di piacevolmente gustoso. Giunsi a Tijuana dopo due ore, un percorsi di duecento miglia, per poi imboccare la strada nazionale che conduce alla cittadina: squallida e insignificante come lo sono spesso le città di confine, né carne né pesce, né promessa di una nuova terra né tristezza per l’antica che si sta per lasciare.
Dall’epoca lontana in cui il mio collega Marlowe l’aveva attraversata per condurre l’amico Terry Lennox all’aeroporto affinché potesse espatriare a Città del Messico, non doveva essere cambiata granché. Soltanto più moderna, e cioè più sovraccarica di inutili orpelli dove il neon, la plastica, i mega schermi imperversavano assieme a prostitute, drogati e di alcolizzati.
Mi diressi all’aeroporto e imboccai l’ingresso del parcheggio, effettuando un giro al suo interno e perlustrando con lo sguardo le auto presenti. A un certo punto la vidi: una Packard verde e gialla - o perlomeno con quei colori me la avevano descritta - incassata fra una Ford e una Lincoln. Fermai la macchina e scesi. Fissai gli occhi sui cristalli delle portiere, e la mano sulla maniglia dalla parte del guidatore, che provai a muovere; ma la portiera restò chiusa. Anche con il portabagagli ottenni il medesimo risultato. Non insistei sebbene con la mia speciale lama avrei potuto aprire sia l’una sia l’altro.
Mi diressi all’interno dell’aeroporto, simile in tutto agli aeroporti presenti in ogni parte del mondo, sorta di luogo neutro al cui interno nulla sembra cambiare sia che ci si trovi in Occidente sia in Oriente, sia che il posto in cui sorge appartenga a una dittatura sia a una democrazia. Mi recai nella sezione dedicata alle partenze provvista di sportelli. Quando mi fui trovato di fronte alla graziosa impiegata del primo sportello le rivelai chi ero e cosa da lei volevo.
- Ieri è venuto qui un tale che ha acquistato un biglietto per Città del Messico? Si tratta di un uomo sulla cinquantina, americano, con la faccia deturpata da una malattia della pelle.
- Non me lo ricordo - rispose dispiaciuta. - E forse è meglio così, perché a me piace ricordare solo le cose belle.
- Quindi la mia presenza verrà a infoltire la sua preziosa collezione - dissi sorridendole. Sorrise anche lei.
- Sì, certo. Come no!
La salutai e passai alla sua collega, ma anche questa non si ricordava di Larkin. Fui invece fortunato con la quarta hostess, la quale sebbene non ricordasse l’uomo da me descritto, la sua collega al quinto sportello: in quel momento privo di passeggeri, intervenne dicendo:
- Io me lo ricordo, signore. Era accanto al mio sportello - e così dicendo indicò il sesto sportello: in quel momento libero, alla sua sinistra - e ho sentito che chiedeva un biglietto per Città del Messico.
- Aveva con sé alcuni bagagli?
- No.
Per forza, pensai. La ringraziai e quindi uscii, con un’altra idea che si andava formando nella mia mente. Ero un uomo dalle idee sfornate in serie, sebbene non fossero fuoriserie se non di tanto in tanto. Fuori erano presenti alcuni taxi, in fila ad aspettare clienti. Mi avvicinai a quello in testa, dietro al volante del quale si trovava un giovane messicano intento a leggere un giornale sportivo.
Sollevò la faccia dal giornale per fissarla su di me, accompagnata da un sorriso che gli metteva in bella mostra denti bianchissimi che ben risaltavano sulla sua pelle olivastra.
- Amigo, ho bisogno di un’informazione. Ieri ha per caso caricato a bordo un americano sulla cinquantina, con il viso segnato da un acne non certo giovanile?
No, non lo aveva caricato. Per cui lo ringraziai e proseguii a ritroso sempre ottenendo il medesimo risultato, fino a giungere al settimo taxi il cui autista era una donna sulla quarantina e di un’ottantina di chili, con occhi da faina e bocca simile all’apertura di una caverna dietro la quale si trovava una doppia fila di denti color avorio sporco.
- Sì - mi rispose attraverso la gomma del chewing-gum che stava masticando, preludio alla plastica del resto della faccia alla quale forse in un futuro prossimo si sarebbe forse sottoposta.
- L’ho caricato a bordo, lui e le sue due valigie.
- Ricorda da dove l’ha visto provenire?
- Dal parcheggio - rispose sicura.
- E dove l’ha condotto?
- A Los Angeles, alla Union Station.
- Verso che ora siete arrivati?
Ci pensò su. Per poco.
- Intorno alle undici.
Annuii.
- Grazie, bellezza.
Annuì a sua volta. Tornai alla Dodge e riattraversato il parcheggio uscii dirigendomi nuovamente a Tijuana e da lì a Los Angeles, alla stazione ferroviaria centrale, dove appresi che alle 12,00 partiva un treno per New York in arrivo alla Central Station della Grande Mela alle ore 24,00 due giorni dopo.

Antonio Mecca


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