RICORDANDO MIO PADRE

Chiusi in casa si ritorna al proprio passato, si pensa... si medita... si scrive

Ripensava spesso a quella sera, a quella cascina, a quella località nell'aperta campagna del novarese così diversa dalle località della sua Basilicata. Si era a ottobre, si stava avvicinando la data del suo compleanno: ventisette anni, e lui era intento a svolgere come lavoro quello di agente di pubblica sicurezza. Partito da Nettuno due anni prima, era stato destinato dapprima a Novara per poche settimane, e poi a Verbania per un paio di anni. Quindi, forse per motivi collegati all'invidia, nuovamente a Novara, città che nel suo piccolo poteva anche ricordare la grande Torino e in niente la bella Verbania, dove aveva avuto occasione di svolgere il lavoro di aiuto-cancelliere in tribunale, e l'avere a che fare con magistrati e avvocati, con uomini di Legge e documenti e carte che lui batteva a macchina o trascriveva a mano: aveva sempre avuto una bella calligrafia, non poteva non infondergli orgoglio.
Fare l'agente di pattuglia non era cosa che amasse granché. Avere a che fare con le armi, con la violenza, con delinquenti o poveracci in lotta per non morire di fame era cosa che lo deprimeva. La guerra, che aveva fatto in marina per tre anni, dapprima su una nave-incrociatore, poi su un sommergibile, in acque italiane, poi in quelle internazionali, lo aveva segnato nell'anima non tanto per gli orrori visti, che anzi per sua fortuna non aveva visto molto, quanto per la stanchezza fisica e morale che ogni conflitto comporta. Ora, dover riprendere  quello che aveva già fatto, significava trovarsi a tu per tu con l'avversario senza avere più la possibilità di vederne diluita la violenza, perché quando si combatte in prima linea tutto è più immediato. Ma quella sera in cui gli scioperanti nelle campagne lo avevano disarmato per poi legarlo insieme all'altro suo sventurato collega, se l'era vista davvero brutta. Sottraendogli l'arma di ordinanza già con il colpo in canna, gliela avevano puntata alla testa. Una leggera pressione del dito sul grilletto e quello che non gli era successo in guerra sotto i bombardamenti ecco che sarebbe potuto succedergli in quell'istante. Gli era stato intentato un processo, conclusosi con l'estromissione dalla polizia. Non avrebbe dovuto consentire a farsi disarmare, secondo le eccellenze del tribunale militare. Avrebbe dovuto sparare, e sperare magari, di non essere ucciso a sua volta. Se non fosse stato per un altro e alto magistrato, che aveva avuto modo di conoscerlo e apprezzarlo quando ancora prestava servizio in tribunale, e che lo aveva raccomandato per l'assunzione alla vicina grande fabbrica della Rhodiatoce dove si produceva nailon, si sarebbe trovato senza lavoro e con la prospettiva di tornarsene magari nella sua regione di origine ad aiutare il padre contadino, oppure in Sardegna a riprendere il lavoro di minatore svolto prima della guerra o quello di calzolaio fatto nell'immediato dopoguerra. Era invece riuscito, superato l'esame di ammissione, ad essere assunto come fuochista per le caldaie della fabbrica, lavoro che riprendeva in grande quello in piccolo ma più pericoloso che aveva svolto nella sala macchine del sommergibile sul quale si era imbarcato. Quel lavoro gli garantiva uno stipendio che veniva considerato sicuro, perché il settore del tessile era in espansione e le vendite in continuo aumento. I genitori erano contadini del Sud che avevano condotto una esistenza grama pur non lesinando fatica nel lavoro della terra, e se non fosse stato per gli altri lavori che suo padre Antonio ogni tanto aveva intrapreso: muratore in Francia, minatore in Sardegna, operaio addetto alla costruzione dell'acquedotto pugliese, non sarebbe stato possibile alla famiglia -ora cinque persone- andare avanti. 
La Sardegna... Ci era andato per la prima volta, col padre, nel 1940, nella neonata città di Carbonia, dove per alcuni mesi aveva lavorato come minatore. Era rimasto favorevolmente colpito dalla funzionalità della cittadina, sorta due anni prima per sfruttare le miniere di carbone del Sulcis e inaugurata da Mussolini in persona. Non si era sentito troppo spaesato in quella terra, perché la Basilicata dalla quale proveniva aveva in fondo la stessa luce intensa, la stessa morfologia del terreno e gli stessi intensi colori di quell'isola antichissima e misteriosa, il cui mistero sembrava riecheggiare negli oscuri e un po' inquietanti canti isolani. Forse solo i profumi della terra erano più intensi, così come i colori di certe piante o delle rosse pietre di trachite servite alla costruzione della piazza con la sua chiesa, il campanile, il palazzo del comune e la torre dal cui balcone il Duce si era affacciato per arringare la folla sottostante e sottomessa, ma anche entusiasta di quanto il grande condottiero andava promettendo con voce tonante. Era quello il tuono che segue il fulmine e precede la tempesta, ma a molti pareva il tuono che segue il colpo di fulmine e precede la pioggia ristoratrice che scendendo sul terreno riarso contribuisce alla nascita di un rigoglioso raccolto. E poi c'erano le ragazze. Troppe non proprio belle, a dire il vero, perché la razza italica si sarebbe evoluta anche fisicamente di lì a non molti anni, generando persone dal punto di vista estetico e mettendosi al passo di nazioni come l'America dove il cibo non scarseggiava, invece di restare incatenati al passo germanico. Ma a quell'età: 17 anni, chi pensava a questo? Chi pensava proprio, verrebbe da aggiungere, vista la gamma di sensazioni, di emozioni, di visioni a cui un adolescente è sottoposto...
Ci si accontentava di un semplice sorriso, di un semplice sguardo che sembravano voler dire più di quanto sembravano volessero dare. Il carico e lo scarico dei vagoncini di carbone, l'odore eccitante dello scuro minerale che avrebbe alimentato caldaie, stufe, fabbriche, treni e navi...
Era il cibo che le macchine richiedevano, insieme alla bevanda prodotta dal petrolio. E a proposito di cibo: lì, a Carbonia, le mense fornivano pasti caldi regolarmente e di discreta abbondanza così che la fame sua e di altri giovani come lui poteva considerarsi finalmente soddisfatta.
Adesso in fabbrica, in una delle pause del turno di lavoro, osservava e ascoltava quella città composta da tubazioni, caldaie, centrale elettrica, magazzini, capannoni sotto i quali ferveva l'attività lavorativa. E sebbene non potesse considerarsi soddisfatto di quanto fino a quel momento ottenuto perché avrebbe voluto studiare di più per evolversi meglio, era comunque grato al destino per avergli offerto quella possibilità. Da una terrazza poteva vedere la vicina chiesa risalente al XV secolo. Sul muretto accanto, che partiva da un vicino bar e terminava all'inizio del vialetto separante il giardino della chiesa, venivano affissi i manifesti funebri riguardanti le persone defunte. Chi lo sa se ogni tanto, passando sulla strada in bicicletta, ci gettava uno sguardo distratto? E chi lo sa se gli capitava di pensare - seppure altrettanto distrattamente, perché a quella età chi ci pensa alla morte - che un giorno pure il suo nome vi sarebbe apparso, come a fissare con sguardo ormai spento il luogo dove in vita aveva operato con coscienza sperando in un futuro benigno? 

Antonio Mecca

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