Il Giallo Delle Ore 8

INDAGINE IN BIANCO E NERO
Capitolo undici

Il campanello sopra la porta dell’anticamera suonò, era la mia cliente, radiosa di un sorriso che per la prima volta da quando l’avevo conosciuta poteva definirsi rassicurante.
- Buongiorno, Philibert; o forse è meglio se ti chiamo semplicemente Bert?
- Forse è meglio se non mi chiami proprio, visti i risultati ottenuti.
Cavai di tasca il prezioso gioiello e lo posai sul ripiano della scrivania, a portata delle sue manine altrettanto preziose - per tutto il denaro del marito, da lei maneggiato. Lei le allungò sfiorando la collana con delicatezza, quasi con sacro timore, come se si trattasse di un serpente velenoso pronto a balzarle addosso. Poi se la infilò al collo, al pari di una ragazza hawayana che dal proprio collo l’avrebbe quindi trasferita a quello del turista appena sbarcato. Johanna Barnes invece non era di quelle giovani donne avvezze ad offrire, bensì a ricevere. Era la sua bellezza che lo richiedeva, e gli uomini che ne avevano la possibilità erano ben lieti di sborsare i dollari necessari per ottenere il privilegio delle sue grazie. La donna pescò dalla borsetta un qualcosa che finì per rivelarsi un assegno già compilato e firmato per il valore di mille dollari. Lo accettai, perché l’indagine ancora non potevo considerarla conclusa. Dovevo infatti recarmi a New York con l’aereo, alloggiare in un hotel e recarmi poi alla Grand Central Station ad attendere l’arrivo di Larkin, del quale Johanna mi chiese notizie.
- Risulta essere salito ieri mattina sul treno delle undici diretto a New York dove arriverà domani sera a mezzanotte. Io sarò lì alla stazione ad attenderlo, per poi seguirlo. Voglio sapere dove si recherà. E se arrecherà danni, anche nell’Est. Larkin è un assassino, che va catturato e poi punito per ciò che ha fatto. Forse a te, Johanna, non interessa punto; a me sì, perché il punto: definitivo per quanto riguarda la fine della storia, sono io che intendo mettercelo.
Non disse nulla. Si alzò, sorridendomi con grazia e con tutto il fulgore delle sue grazie. Quindi mi porse la bella e aggraziata mano.
Gliela strinsi.
- Fa attenzione a quell’assassino - mi raccomandò con finta sollecitudine.
- È lui che deve stare attento a me - replicai un po’ sbruffone, - a tuo marito, e soprattutto a te.
Uscì, senza più voltarsi.
Il mattino successivo salii sulla mia auto con una valigetta ventiquattro ore e mi recai all’aeroporto. Lasciai la Dodge nel grande parcheggio suddiviso in vari settori, raggiunsi il terminal delle partenze, dove alla biglietteria acquistai un biglietto per Los Angeles-New York andata e ritorno. La graziosa hostess dietro il banco, mi sorrise con simpatia, immaginandosi chi lo sa cosa per via dei miei occhiali da sole stile Hollywood. Quindi stampò i due biglietti e me li consegnò.
- Si reca nella grande mela? - chiese. - Attento a non addentarla con bocconi troppo grossi, allora.
- La mia dentatura è sufficientemente sana da poterne staccare robusti morsi evitando di lasciarci sopra i denti.
Lei accentuò il sorriso, dopodiché la salutai e mi sottoposi alla serie di controlli riguardanti la mia persona e il bagaglio ridotto che mi portavo appresso, trasferendomi quindi nella parte della sala di attesa riservata al mio volo delle dieci e cinquanta. A bordo dell’aereo iniziai a leggere un libro che avevo intenzione di terminare prima del mio arrivo, visionai distrattamente un film e dormii più o meno profondamente per qualche ora. Arrivammo nella grande città cattiva, sebbene la città delle palme non avesse poi molto da invidiare alla Grande mela. Uscito dal terminal salii sul primo taxi della lunga fila in attesa e mi feci portare a Manhattan, sulla 43 Strada, all’hotel Hilton dove già ero stato l’anno precedente e che: a dispetto del nome, non era un albergo di lusso e quindi accessibile anche per uno come me. Pagai il tassista ed entrai nell’hotel. La ragazza alla reception mi riconobbe e mi salutò con cordialità. Di origine portoricana, esprimeva quel calore umano insito nel suo DNA. Le chiesi come stava e se c’era una camera libera.
- Sì - rispose - e fu lieta di assegnarmela. Dopodiché salii con uno dei due ascensori presenti fino al diciannovesimo piano. Entrai  nella stanza 192, provvidi per prima cosa a spegnere il dannato condizionatore attivato, tolsi dalla valigetta i miei pochi stracci di ricambio e quindi uscii.
La giornata era bella, sebbene un po’ fredda per gli standard californiani. Avevo cercato di rimediare con l’indossare un pullover sotto la giacca, dopodiché fui pronto a lasciarmi avvolgere dalla città e dalle sue mille lusinghe, dalle sue luci multicolori che per me si presentavano con il solo colore nero con le sue diverse varianti grigie con la sua fauna umana formicolante per le lunghe e larghe strade, con l’odore del cibo che spesso non era un profumo fra i più gradevoli. Quindi anche per questo motivo al mio ritorno mi fermai nel ristorante italiano situato di fronte all’hotel, da “Pietro”. Il cameriere di origine pugliese, regione del Sud Italia lambita dal mare, mi riconobbe salutandomi con simpatia. Ordinai un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico seguito da una cotoletta alla milanese, il tutto accompagnato da una mezza bottiglia di vino italiano, il nebbiolo. Lasciai il locale salendo lungo la strada che recava alla terrazza panoramica con vista sul palazzo delle Nazioni Unite. A destra si trovava un piccolo giardino in stile italiano, provvisto di panchine in ferro lavorato e di una fontana in stile neoclassico che zampillava nella vasca producendo un suono triste e solitario. Restai davanti la balconata ad ammirare la facciata di cristallo del palazzo dell’ONU, i riflessi degli ultimi raggi del sole al tramonto, le nuvole transitanti nel cielo blu come grosse pecore in transumanza. Poi, stanco per il viaggio, feci ritorno all’hotel dove: a doccia conclusa, mi fiondai nel lettone presente rendendomi assente per diverse ore.


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