LA PELLE - Curzio Malaparte

Ogni mattina alle ore 08:00 proponiamo ai nostri lettori la parte iniziale e finale di un capolavoro della letteratura universale. A cura di Stelio Ghidotti

La Pelle (1949) di Curzio Malaparte

INCIPIT

  Erano in giorni della “peste” di Napoli. Ogni pomeriggio alle cinque, dopo mezz’ora di punching-ball e una doccia calda nella palestra della P.B.S., Peninsular Base Section, il Colonnello Jack Hamilton ed io scendevamo a piedi verso San Ferdinando, aprendoci il varco a gomitate nella folla che, dall’alba all’ora del coprifuoco, si accalcava tumultuando in via Toledo.

   Eravamo puliti, lavati, ben nutriti, Jack ed io, in mezzo alla terribile folla napoletana, squallida, sporca, affamata, vestita di stracci, che torme di soldati degli eserciti liberatori, composti di tutte le razze della terra, urtavano e ingiuriavano in tutte le lingue e in tutti i dialetti del mondo.  L’onore di essere liberato per primo era toccato in sorte, fra tutti i popoli d’Europa, al popolo napoletano: e per festeggiare un così meritato premio, i miei poveri napoletani, dopo tre anni di fame, di epidemie, di feroci bombardamenti, avevano accettato di buona grazia, per carità di patria, l’agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, battere le mani, saltare di gioia fra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettare dalle finestre fiori sui vincitori. 

   Ma, nonostante l’universale e sincero entusiasmo, non v’era un solo napoletano, in tutta Napoli, che si sentisse un vinto. Non saprei dire come questo strano sentimento fosse nato nell’animo del popolo. Era fuori di dubbio che l’Italia , e perciò anche Napoli, aveva perduto la guerra. E’ certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti sono buoni, non tutti sono capaci di perderla. Ma non basta perdere la guerra per avere il diritto di sentirsi un popolo vinto. Nella loro antica saggezza, nutrita di una dolorosa esperienza più volte secolare, e nella loro sincera modestia, i miei poveri napoletani, non si arrogavano il diritto di sentirsi un popolo vinto. Era questa, senza dubbio, una grave mancanza di tatto.  Ma potevano gli Alleati pretendere di liberare i popoli e di obbligarli al tempo stesso  a sentirsi vinti?  O liberi o vinti. Sarebbe ingiusto far colpa al popolo napoletano se non si sentiva né libero né vinto. 

 

FINIS

 

    - Non posso abbandonare i miei morti, Jimmy. I vostri morti ve li portate in America. Ogni giorno partono per l’America piroscafi carichi di morti. Sono morti ricchi, felici, liberi. Ma i miei morti non possono pagarsi il biglietto per l’America, sono troppo poveri. Non sapranno mai che cosa è la ricchezza, la felicità, la libertà. Sono sempre vissuti in schiavitù; soffriranno sempre la fame e la paura. Saranno sempre schiavi, soffriranno sempre la fame e la paura, anche da morti. E’ il loro destino, Jimmy. Se tu sapessi che Cristo giace tra loro, fra quei poveri morti, lo abbandoneresti?
- Non vorrai darmi ad intendere - disse Jimmy – che anche Cristo ha perso la guerra.

- E’ una vergogna vincere la guerra – dissi a voce bassa.

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